Animi accesi tra Juve e Milan

 

di Ivan Grozny

 

Che spot che è stato Milan - Juventus di sabato scorso. Di solito si dice così, uno spot per il calcio quando di fronte si affrontano due grandi squadre e la partita è spettacolare. Ormai i big match di campionato si vedono in tutto il mondo. In diretta, per lo più.

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La tragica notte de Il Cairo

 

Quasi un anno fa, proprio su questo blog, avevamo raccontato della partecipazione alla “rivoluzione egiziana” di numerosi tifosi di calcio. Tra loro, i più attivi erano gli ultrà e qualche giocatore dell’Al Ahly de Il Cairo, la squadra egiziana più blasonata (36 scudetti vinti). Dopo un anno, nonostante Mubarak era stato costretto a dimettersi, è arrivata la vendetta.

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di Davide Drago

Sono diminuite le aggressioni, gli insulti, le minacce e la violenza nel mondo del calcio? Stando ai numeri presentati dall'Associazione Italiana Calciatori (AIC) le azioni violente registrate l'anno scorso sono state centoquattordici, il 2,5% in meno rispetto alla stagione 2015/16. In questi numeri non sono però considerate le azioni svolte, dentro e fuori gli stadi, da gruppi ultras e forze dell'ordine.

Il dato che immediatamente salta all'occhio è che il 5% del totale delle “azioni violente” avviene nel mondo del calcio giovanile, ma c'è un elemento ancora più allarmante: il 36% degli episodi possono essere inseriti all'interno della categoria “atti razzisti”. Dall'agosto del 2013 il codice di giustizia sportiva della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC) è cambiato: si prevedono squalifiche da un minimo di dieci giornate, fino a uno stop a tempo indeterminato, in caso di comportamenti razzisti. Nonostante l'inasprimento delle pene, negli ultimi cinque anni i casi di razzismo nel mondo del calcio non sono diminuiti e il fatto ancora più grave è che sono aumentati tra i ragazzini.

Tra gli adulti sono ormai tantissime le squadre miste o composte soltanto da migranti che solcano i campi da gioco di campionati amatoriali o federali, ma nonostante questo non mancano i casi di razzismo. Emblematici sono stati gli ultimi due casi, saliti agli onori della cronaca negli ultimi mesi, di due squadre “simbolo” composte da migranti: la squadra del Cara di Mineo in Sicilia e del Pegolotte in Veneto. I dirigenti di quest'ultima squadra sono stati deferiti dalla procura federale della Figc, con pene che vanno dai quarantacinque giorni ai sette mesi, per aver vietato lo scorso anno l'accesso all'impianto sportivo di Pegolotte di Cona ai migranti della base di Conetta, nel Veneziano, su richiesta dei genitori di ragazzi che lo frequentavano. I dirigenti hanno tenuto un comportamento discriminatorio nei confronti di alcuni calciatori extracomunitari tesserati, tra l'altro, nella loro stessa società. In Sicilia la squadra del Cara di Mineo, nonostante continui a raggiungere ottimi risultati sportivi, non riesce ad essere “accettata” pienamente dai giocatori e tifosi avversari. «Ancora una volta abbiamo preso insulti e provocazioni, frasi irripetibili - racconta al giornale MeridioNews un dirigente della squadra-. Dispiace dirlo, ma i miei ragazzi ormai ci sono abituati, sanno che non devono reagire, anche se è normale che ci restino male. Non capiscono perché vengono accolti in questo modo».

A storie di discriminazione si contrappongono, fortunatamente, racconti di integrazione, di vittorie, come quella dei Survivor, compagine calcistica piemontese di Pasta di Orbassano, formata interamente da richiedenti asilo, la quale ha vinto il campionato regionale UISP e che adesso cerca finanziamenti per poter partecipare ai campionati nazionali per riuscire a portare anche alle fasi finali nazionali un messaggio di accoglienza ed integrazione.

Anche nelle sezioni giovanili ci sono molte squadre interamente o parzialmente composte da giovani immigrati o da ragazzi di seconda generazione e, come scritto in precedenza, anche in quei contesti le azioni razziste sono sempre più in aumento. È proprio dalle fasce minori che sarebbe più opportuno partire, per educare chiunque fin dalla tenera età al rispetto delle diversità e all'accoglienza.

Qualche giorno fa a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, è avvenuto un nuovo caso di razzismo all'interno del rettangolo di gioco, ma stavolta il finale è stato diverso. Il paesino si trova a dieci km da un luogo simbolo per una compagine politica che non nasconde il suo essere razzista: il luogo è Pontida e la forza politica è la Lega.

Il primo maggio sul campo del Ponte San Pietro si svolgeva una partita valida per un campionato giovanile, partita vinta per sei a quattro dal Pontisola con un gran gol segnato da Marco, lo chiameremo cosi, un ragazzo nato in Italia da genitori del Burkina Faso. A fine partita un giocatore del Rozzano si avvicina per stringere la mano a Marco, ma lui si rifiuta. L'allenatore napolentano, Igor Trocchia, interviene subito per riprendere quel gesto di scarso fair play, pensando fosse dovuto a nervosismo o a qualche reazione sbagliata. I giocatori di mister Trocchia hanno però spiegato al mister cosa era successo in campo e ripetuto l'insulto che il loro compagno aveva ricevuto. L'allenatore a quel punto ha deciso di ritirare la squadra dal campionato, nonostante il Pontisola fosse saldamente in testa alla classifica.

Il mister ai giornali locali ha dichiarato di essere stanco di dover assistere ogni partita a comportamenti di questo tipo ed ha per questo motivo optato per una scelta drastica che servisse da “insegnamento” per tutti i ragazzi.

Sarà un caso o un segno del destino che questo fatto sia accaduto a dieci km da Pontida, che a prendere la scelta di ritirare la squadra sia stato un allenatore di origini napoletane.

L'anno scorso, proprio a Pontida, si è svolto un festival dell'orgoglio terrone e migrante. Il festival era nato in risposta alle provocazioni di Salvini, e in quella giornata la risposta è stata chiara e netta: tantissime persone hanno calpestato un prato che negli anni è stato palcoscenico soltanto di frasi d'odio e razziste nei confronti di meridionali e stranieri, e nonostante il trasformismo della Lega, Pontida continua a mantenere quel ruolo narrativo razzista e discriminatorio. Con la musica, e soprattutto con il calcio, abbiamo lanciato dei messaggi totalmente diversi: eravamo in tantissimi, con squadre provenienti da tutta Italia, a gridare con tutta la nostra forza che chi ama lo sport odia il razzismo e che tutti hanno il diritto di poter giocare a prescindere dai luoghi di nascita o dal colore della pelle.

Continueremo, forti anche delle scelte fatte da un mister di una piccola squadra di ragazzini, a scandire forti i nostri messaggi antirazzisti e antifascisti, che sia a Pontida o in qualunque altro luogo, lo sport continuerà ad essere volano per il cambiamento.

 

 

A distanza di due mesi dalla storica vittoria della campagna We Want To Play, le polisportive popolari e antirazziste di tutta Italia decidono di tornare in piazza per rivendicare un diritto universale come l’accesso alla pratica sportiva, quale mezzo imprescindibile per l’abbattimento di quei meccanismi discriminatori e irragionevoli che sempre più spesso vediamo promossi tanto a livello istituzionale quanto all’interno della società civile.

LA CAMPAGNA WE WANT TO PLAY E LO SPORT POPOLARE

La campagna We Want To Play rappresenta a oggi uno dei migliori esempi della capacità di un movimento ormai capillarmente diffuso in tutta la penisola, quale quello dello sport popolare, di produrre trasformazioni reali in risposta a esigenze reali. Un movimento che oggi può affermare orgogliosamente che cambiare si può. La direzione di questo cambiamento è una soltanto. Dal mondo dello sport a quello della società nella sua complessità. Dall’egoismo discriminatorio all’affermazione di diritti per tutti. Dal basso verso l’alto. Nello specifico, l’impatto della campagna, nata dalla collaborazione di oltre quaranta tra associazioni, squadre e realtà sportive, per sollevare una critica alle oggettive difficoltà riscontrate nel tesseramento di giocatori stranieri nei campionati di calcio dilettantistici, è da ricercarsi nella sua coerenza con problematiche che non si limitano al solo mondo sportivo. Basta dare uno sguardo d’insieme alla quantità e alla qualità delle iniziative susseguitesi negli otto mesi di attività della campagna per comprendere quanto sia ricco ed in salute il movimento dello sport indipendente e popolare di questo paese. Un movimento che non si accontenta più di ritagliarsi uno spazio di esistenza e di pratica sportiva "anomala", ma che si è dimostrato capace di leggere, anticipare e stimolare la necessità di cambiamenti radicali negli schemi interpretativi e legislativi che normano la società.

DALLO SPORT ALLA SOCIETÀ

Il nostro impegno si basa sulla consapevolezza che le questioni relative alle discriminazioni legate al mondo dello sport sono sintomatiche di una istituzionalità che non riesce o non vuole equipararsi alle esigenze dettate dal momento storico nella quale essa sta agendo. La gestione dei flussi migratori è diventato uno dei principali temi di dibattito dell’epoca contemporanea e le ragioni che hanno determinato l’incapacità italiana ed europea di trovare una soluzioe al problema o quantomeno di essere in grado di focalizzarsi sulle giuste vertenze per riuscire ad affrontare quella che una gestione miope e individualista ha fatto sì che divenisse un’emergenza, sono da ricercarsi anche in aspetti che a primo impatto possono sembrare secondari. Lo sport ne è certamente un esempio. Giorno dopo giorno vediamo applicato un pericoloso scambio nel rapporto causa-effetto. Ciò che si sta facendo è identificare il problema con il migrante in quanto persona anziché nella nostra incapacità di gestirne l’arrivo. L’equazione secondo la quale da un aumento sensibile del numero di migranti derivano i problemi, perde di significato nel momento in cui viene tralasciata la variabile determinante che riguarda la gestione dell’accoglienza. Alla luce di questa analisi, la relazione tra mala gestione dei flussi migratori e relative problematiche legate all’accoglienza, e il nostro operato, diventa piuttosto evidente. Siamo convinti che la soluzione non può essere fermare l’arrivo di queste persone ma può e deve essere ricercata in un miglioramento dei processi di accoglienza, come possiamo pretendere di riuscirci se poniamo delle limitazioni discriminatorie anche per processi basilari come il diritto alla pratica sportiva? La stessa Comunità Europea, nella Dichiarazione di Nizza, riconosce il valore e l’incredibile potenziale che lo sport può avere: “Lo sport è un'attività umana che si fonda su valori sociali, educativi e culturali essenziali. È un fattore di inserimento, di partecipazione, di tolleranza, di accettazione delle differenze e di rispetto delle regole. L'attività sportiva deve essere accessibile a tutte e a tutti, nel rispetto delle aspirazioni e delle capacità di ciascuno e nella diversità delle pratiche agonistiche o amatoriali, organizzate o individuali”. Va detto che per crescere e superare il problema che ci si sta parando di fronte, oltre a combattere le attuali politiche di chiusura, la nostra attività non si può neanche fermare a un discorso di semplice assistenzialismo. La visione per la quale il migrante è semplicemente qualcuno da salvare, è deleteria tanto quanto le politiche europee che stiamo vedendo messe in atto. Accogliere non significa solo garantire un pasto o un tetto, cosa che per altro non stiamo facendo, accogliere significa costruire percorsi di emancipazione. Esistono centinaia di realtà sparse per tutta la penisola che giorno dopo giorno dimostrano che un'accoglienza degna è possibile. Realtà che creano posti di lavoro e reddito, realtà che offrono servizi e che sono indispensabili sia per chi arriva nel nostro Paese che per chi ci è nato o cresciuto. Siamo convinti che il concetto di universalità all’accesso alla pratica sportiva si cali perfettamente all’interno delle dinamiche che caratterizzano la manifestazione di oggi. Dinamiche che chiedono di costruire un percorso comune fondato sulla rivendicazione di diritti che dovrebbero essere basilari per chiunque. Isolare le persone non farà altro che accrescere quel meccanismo nocivo che vede una differenza tra noi e loro. Un meccanismo che porta a diffidenza e disperazione e che in nessun modo potrà contribuire a una soluzione del problema.

Pontida, il pratone dello storico raduno antimeridionale e razzista, il "sacro suolo" dove per anni si è tenuto quel grottesco rito di celebrazione di una strana e indefinita razza settentrionale... proprio lì stiamo andando con musica, allegria e tanta cultura terrona per liberare la cittadina padana dallo stigma razzista che da quasi trent'anni le pesa sulla testa!

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La squadra interetnica attaccata in un confronto amatoriale con la Real Fac Marano. Gargiulo (presidente Afro-Napoli) chiede l'intervento di FCS e FIGC

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Ho continuato a guardare i siti web con crescente sorpresa . Possibile che non avesse detto niente? Nemmeno una battuta facile, una di quelle che ti fanno piegare dal ridere.

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La squadra multietnica Afro-Napoli United denuncia le enormi difficoltà burocratiche che rischiano di trasformarsi in discriminazione razziale, incontrate per il tesseramento dei giovani nella squadra Juniores.

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di Nicolò Rondinelli

Nel 1991 “Millerntor Roar”, il foglio controinformativo dei supporters del FC St. Pauli, primo esperimento di redazione di una fanzine autoprodotta e politicamente attiva nel complesso universo del tifo calcistico tedesco, titolava: “Amburgo senza la Hafenstrasse è come la Bundesliga senza il St. Pauli”. Il connubio tra ciò che accadeva in strada e le vicende sportive del club era sempre più forte. In quel periodo le occupazioni delle case lungo il porto subivano una serie di attacchi sia dalla polizia che dai gruppi di estrema destra. E la resistenza attiva è sempre stata di casa a St. Pauli. Una scritta campeggia ancora oggi su uno di quegli edifici: Kein Mensch ist illegal, “Nessun uomo è illegale”. Sempre nella Hafenstrasse, sempre a St. Pauli; dove calcio, solidarietà e aggregazione assumono una valenza eminentemente politica.

Forte della sua storia ribelle, St. Pauli ha consolidato lo status di un modello di solidarietà non effimero o di facciata, ma concreto. Apportato dalla base sociale del suo quartiere, dei suoi tifosi, degli stessi apparati societari che in questi decenni hanno alternato un braccio di ferro costante con l’ethos politico dei supporters. Fino a diventarne emanazione, con gli stessi tifosi divenuti colonna portante dell’organizzazione del club. Bussola fondamentale di orientamento verso un nord costituito da linee guida di gestione che fanno di antifascismo, antirazzismo, radicamento sul territorio, accoglienza e solidarietà, i capisaldi di un modo di concepire il calcio, e lo sport tutto, a misura della gente. Dal basso, soprattutto.

Il calcio è politica”. Un’affermazione che in Germania acquisisce ormai un valore pienamente riconosciuto. Non solo nelle lande amburghesi di sponda bianco-marrone. La questione dei rifugiati ha infatti investito nelle ultime settimane anche e soprattutto il mondo del calcio europeo e tedesco in particolare. Sia a livello di club che di tifoserie, l’azione concreta di solidarietà attiva non si è fatta attendere. Dai pluricampioni del Bayern Monaco, che ha donato un milione di euro in supporto ai rifugiati in arrivo dall'Ungheria e ha in cantiere l’allestimento di un campo di allenamento per i migranti presenti in città, all’altra sponda cittadina del Monaco 1860, che tramite i suoi supporters ha provveduto ad acquistare e donare ai rifugiati più di 200 biglietti per le partite della loro squadra.

Il Borussia Dortmund e lo Schalke 04 hanno messo a disposizione centinaia di biglietti per i rifugiati, mentre il Bayer Leverkusen, il Werder Brema, l’Hannover, l’Hoffenheim e la Dynamo Dresda hanno avviato progetti di sostegno attraverso la donazione di beni di prima necessità. Così come il Babelsberg di Potsdam e l’HSV, l’altra compagine amburghese.

A St. Pauli il binomio calcio-politica traspare in maniera ancora più ridondante.
Parte tutto dalla strada, dal basso per l’appunto. “Ad Amburgo ogni giorno arrivano circa 300-400 rifugiati. Vengono radunati e registrati nei centri di accoglienza e successivamente inviati in accampamenti e case sparse per la città. Alcuni vengono convogliati anche nei vicini stati federali dello Schleswig Holstein e della Bassa Sassonia. Altri preferiscono proseguire verso i paesi scandinavi” afferma Hans, tifoso storico del FC St. Pauli e redattore della fanzine Kiezkieker.

Qui la risposta della comunità è antecedente a ogni eventuale azione istituzionale. “In quasi ogni distretto di Amburgo i residenti hanno organizzato gruppi di aiuto e supporto ai rifugiati.
In uno dei grandi padiglioni della città il governo cittadino ha istituito un centro di accoglienza per 1.200 rifugiati”. Proprio nel cuore del quartiere St. Pauli, a nord est della Heiligengeistfeld, l’area dello stadio Millerntor.

Il club, con la piattaforma “Kiezhelden”, che tramite il crowdfunding supporta decine di progetti sociali attivi, ha promosso a partire dallo scorso agosto l’iniziativa “Refugees Welcome” nel distretto cittadino di Karoviertel. Essa comprende 16 gruppi di lavoro che provvedono a raccogliere donazioni (vestiti, articoli per l'igiene, giocattoli per bambini, ecc.) e fondi, a organizzare eventi sportivi e di sensibilizzazione politica sulla situazione dei migranti, a garantire cibo e tutela medica, ad aiutare i rifugiati nelle pratiche burocratiche, dalla compilazione di moduli al coinvolgimento nelle proteste. Vi è inoltre un servizio di assistenza psicologica rivolto alle persone giunte in città, anche in un’accezione politica di critica al sistema amministrativo di accoglienza delle istituzioni.

Sempre Hans sostiene: “Le autorità cittadine paiono fare il possibile, ma sono più impegnate a reperire posti abitativi e nelle pratiche di registrazione delle persone arrivate. Certamente è meglio qui rispetto a come la questione viene gestita in altri paesi, vedasi l'Ungheria. Certo, senza l'aiuto diretto di migliaia di residenti del quartiere e della città la situazione sarebbe critica anche qui”.

Il FC St. Pauli, per mano del club e dei fans, svolge un ruolo attivo e rilevante per aiutare i rifugiati, in un fil rouge che da molti anni percorre la linea solidale della comunità del quartiere.
Nel 2013 grande è stata la risposta globale della comunità Sanktpauliana all’esodo di 300 migranti giunti da Lampedusa fino ad Amburgo; e così l’amichevole contro il Borussia Dortmund dello scorso 8 settembre al Millerntor, che si è disputata dietro il motto “Refugees Welcome”. 1.000 rifugiati e relativi volontari sono stati invitati sugli spalti, mentre tifosi e calciatori hanno esposto a più riprese alcuni striscioni. Ben 25,731 biglietti sono stati venduti, in un’atmosfera da grande partita per una causa più che attuale. Le parole dell’allenatore del FC St. Pauli, Ewald Lienen, uomo simbolo della rinascita sportiva ma anche politica dell’ultima stagione, al termine del match risuonano più esplicative che mai: “Non è sufficiente reggere uno striscione; bisogna agire anche nella vita quotidiana, soprattutto noi addetti ai lavori: giocatori, allenatori e dirigenti. Noi organizziamo spesso sedute di allenamento con i rifugiati. È nostro dovere dare loro il benvenuto qui, predisporre l’accoglienza e informare la gente”.

Anche prendere posizione netta contro un razzismo dannoso e schiavo di un passato di orrore.
La mobilitazione antifascista ad Amburgo dello scorso sabato 12 settembre contro la “Giornata del patriota”, indetta nello stesso giorno in città da un movimento trasversale di estrema destra, comprendente hooligans di vari club e gruppi anti-islamici come il famigerato PEGIDA, ha visto il FC St. Pauli in primissima fila. Il presidente Oke Göttlich alcuni giorni precedenti, in una conferenza stampa straordinaria, aveva invitato la gente della città e del quartiere a unirsi al corteo antifascista, dichiarando che il club stesso avrebbe appoggiato pienamente l’azione. Il co-allenatore della rappresentativa Under 23 ed ex idolo bianco-marrone Fabian Boll ha esortato i fans a non andare alla partita casalinga del sabato della Under 23 ma di prender parte alla dimostrazione, sostenendone l’importanza sociale e politica.

La lotta e la solidarietà a St. Pauli sono espressione concreta dell’anima del quartiere. Contro ogni speculazione. Come quella della campagna “Wir helfen” (“Noi Aiutiamo”), lanciata del quotidiano conservatore “Bild”, dalla DFL (la lega calcio tedesca) e dalla società logistica “Hermes”, sponsor della lega calcio. In occasione della 5° giornata di campionato della Bundesliga e della 7° della Zweite Liga, “Wir helfen” si è proposta infatti di comparire con relativo logo sulla manica delle divise dei 36 club delle due categorie professionistiche. Il responsabile del marketing del FC St. Pauli, Andreas Rettig, ha proclamato ufficialmente il boicottaggio della campagna da parte del club: “Il St. Pauli è sempre stato in prima fila nel supporto alle persone che sono fuggite dai loro paesi e sono giunte in Germania. La nostra partita contro il Borussia Dortmund, l’impegno privato dei nostri giocatori e dei nostri tifosi in una varietà di azioni e supporto per i rifugiati presenti ad Amburgo sono la prova. Quindi non vediamo la necessità per noi di partecipare alla campagna prevista per tutti i club della DFL, dal momento che la cultura dell'accoglienza per noi è un valore costitutivo da decenni. Forniremo aiuti concreti e diretti laddove ce ne sarà bisogno”. Il Bild pare non aver preso bene questa decisione. Tant’è, data la caratura conservatrice di quello che è uno dei tabloid più venduti in Europa e che avrebbe marciato sulla campagna “Wir helfen” ai fini commerciali. Quale parte per il FC St. Pauli in un carrozzone del genere? Nessuna, chiaramente.

A St. Pauli infatti ogni dettaglio è cruciale. Non serve pubblicità, non servono parate dimostrative in pompa magna. Ci sono il club, i suoi tifosi e la sua gente. In una comunità solidale, attiva e resistente. Che rimane, nonostante tutto, politica.