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Samia Yusuf Omar, nasce a Mogadiscio il 30 aprile del 1991, anno in cui il presidente Siad Barre viene destituito dal movimento di liberazione somalo, nel pieno della guerra civile. Il padre, Omar Yusuf, viene ucciso da un colpo di pistola mentre è a lavoro al mercato di Bakara e il mese dopo Samia, la più piccola di sei figli, abbandona la scuola per occuparsi dei fratelli, perché la madre deve iniziare a lavorare per mantenere la famiglia.

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Lo sport, in quanto espressione dello Spirito olimpico, quello spirito descritto sulla Carta Olimpica del 1908 votato al fair play, al rispetto per l'avversario e per la competizione stessa, alla giustizia sportiva, all'onestà e al miglioramento personale, è qualcosa che noi tutti amanti del tema adoriamo e ricerchiamo. Quello che invece non vorremmo mai vedere è l'altra faccia dello sport, quella oscura che ha interessi d'altro genere, quella che rovina tutta la bellezza che una competizione sportiva, qualunque essa sia, è in grado di offrire.

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Sport e razzismo, un pessimo binomio che continua a far parlare di sé, a riempire le pagine dei giornali e occupare gli spazi dei notiziari sportivi.

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Quante volte ci siamo sentiti dire dalle persone o dalle televisioni “il talento non basta!”. Questa frase senza dubbio racchiude in sè stessa molteplici periodi subordinati possibili, come ad esempio sottintendere che è necessario dover faticare, oppure che a volte occorre anche fortuna, o ancora, che serve tenacia e perseveranza. Per l'ex calciatore Alì Dia, però, questa affermazione ha preso un significato del tutto diverso, ovvero: se il talento non basta, cambiamo le regole.

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di Nicola Sbetti

Il 25 novembre 2019, allo stadio Fratelli Campari di Bagnolo in Piano (provincia di Reggio Emilia) nel corso della partita fra la Bagnolese e l’Agazzanese, valida per il campionato di Eccellenza, al 27° minuto del primo tempo di gioco Omar Daffe, il portiere della squadra ospite, viene ripetutamente insultato con degli epiteti razzisti da uno spettatore. Invece di sopportare in silenzio come troppe volte ha fatto in passato, Omar Daffe decide che la misura è colma. Abbandona la propria porta e si reca verso la metà del campo all’altezza della linea laterale. Lì getta i guanti a terra e sconfortato abbandona il terreno di gioco.

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Ci sono successi che, più di altri, rimarranno per sempre indelebili nelle menti e nei cuori di un popolo, spesso di un continente e in alcuni casi dell'intero mondo sportivo. Si tratta di momenti rari, spesso unici. Momenti che, mentre li stai vivendo, sai che con grandissima probabilità non si ripeteranno più nell'arco della tua vita.

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Le dimissioni di Gaetano Micciché sono state un colpo per il calcio italiano, che si trova a festeggiare i “record” di Mancini; l’indagine della procura viaggiava in un silenzio giornalistico dovuto anche agli interessi che legano i presidenti del calcio italiano con i principali gruppi mediatici.

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La storia dello sport, si sa, nasconde tra i suoi meandri centinaia di storie incredibili. Questa volta però, pensando alle vicissitudini del maratoneta giapponese Shizo Kanakuri, l'accezione di incredibile non assume il significato gergale e popolare che tutti noi siamo soliti dargli, ma sta ad indicare una storia che realmente, se non fosse documentata da fonti certe, avrebbe parecchie difficoltà a passare come veritiera. Quella che state per leggere è la storia di un uomo che nella ormai remota olimpiade di Stoccolma del 1912 è stato protagonista di una delle gare più misteriose e assurde che quest'evento abbia mai mostrato.

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Dall’Italia al Cile una sola voce: “El pueblo unido jamás será vencido!”

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