Spesso non ci si pensa, ma dietro a quello che da molti è considerato lo sport più bello del mondo, il calcio naturalmente, si cela un'oscura malattia. Un morbo che attanaglia la gola dello spirito sportivo, spesso sopraffacendolo, in favore del lato più sinistro e tetro della medaglia, quello delle scommesse, del denaro, dell'estrema esposizione mediatica, del ricatto e della violenza.

Fa male vedere come quello che di fatto è solo un gioco, una competizione sportiva e nulla di più, debba essere oscurato in tutta la sua bellezza e il suo fascino da queste forze opprimenti le quali soffocano la magia e l'entusiasmo che un rettangolo in erba, due porte, ventidue giocatori e un pallone sanno dare.

Questa triste premessa è fondamentale per il racconto che sta per essere narrato. Si tratta infatti di una delle tante storie che fanno da copertina a questa ignobile malattia. Quella di un uomo, un leader e una vittima del calcio.

Quella di Andres Escobar, difensore centrale dell'Atletico Nacional e capitano della nazionale colombiana di calcio ai mondiali di “Usa 1994”.

La storia calcistica colombiana ci racconta che la prima metà degli anni '90 fu il periodo più promettente per quella nazionale, visto il bagaglio tecnico di indubbio valore e gli ottimi risultati ottenuti. C'era chi si sbilanciava dicendo che al mondiale Statunitense la Colombia avrebbe anche potuto dire la sua per la lotta al titolo. Forse queste erano esternazioni esagerate, ma lasciano ben intendere quanto entusiasmo e quanta aspettativa ci potesse essere tra il popolo dei Caffeteros.

Spesso quando l'enfasi è alta la delusione è dietro l'angolo, e questo accade con ancor più alte probabilità se ci sono agenti esterni al campo di gioco che mettono grosse pressioni alla squadra. Come è noto a tutti, la Colombia è un Paese da sempre in lotta con i cartelli del narcotraffico che controllano buona parte del business commerciale della nazione, e purtroppo il mondo del calcio nel 1994 non si rivelò estraneo a questa piaga.

Tornando ai campi di gioco, quel mondiale per la Colombia iniziò male fin dalla prima partita, nella quale la squadra subì una cocente sconfitta contro la Romania. Al termine di quel match il ct ricevette un telegramma anonimo che imponeva l'esclusione di Gabriel Gomez - reo di aver condizionato la sconfitta contro i rumeni - dalla partita successiva, con minacce di morte annesse. Questo segnale fece già intendere ai giocatori che il mondiale colombiano era finito sotto la lente di organizzazioni pericolose, e sicuramente la notizia non portò la squadra al seguente match contro i padroni di casa degli Stati Uniti in un clima disteso e tranquillo.

La pressione era evidente. La Colombia quella partita non la giocò, si limitò ad una partecipazione attiva con la testa chiaramente altrove. Ma il danno vero e proprio arrivò al minuto '34, quando da un cross dello statunitense Harkes, Andres Escobar colpì il pallone con l'intento di non farlo arrivare all'attaccante dietro di lui, e lo depositò nella propria rete prendendo in controtempo il suo portiere Oscar Cordoba. Di fatto, quell'atto divenne il manifesto del disastro colombiano in quella competizione. Il gesto che segnò l'eliminazione della nazionale dal mondiale, e l'evento che concluse le speranze di un popolo che sapeva che un treno così pieno di campioni probabilmente non sarebbe più passato da quelle parti.

Il match finì 2-1 per i padroni di casa a stelle e strisce che avanzarono al turno successivo, mentre Escobar e compagni tornarono a testa bassa a casa.

È proprio in questo momento che sarebbe bene ricordare la premessa iniziale, per far sì che gesti come quello che è successo nel'estate post mondiale a Medellìn non si verifichino più.

Andres Escobar era psicologicamente distrutto. Afflitto e lacerato dall'andamento del mondiale appena concluso, passava le giornate amebizzando a casa sua senza voler vedere nessuno, morso dai pensieri, dalla delusione e dal senso di colpa. La fidanzata Pamela Casals dichiarò che non riusciva più a vederlo in quello stato, e così gli impose di uscire e vedere un po di gente, pensando che un po di vita esterna gli avrebbe fatto dimenticare i fatti sportivi del mondiale. Andres si convinse che Pamela avesse ragione, così organizza una cena in un ristorante nel quartiere di Las Palmas, in cui lui risiedeva. All'uscita dal locale si trovò a discutere animatamente con un gruppo di uomini che erano lì ad attenderlo. Le parole durarono poco, perché uno di loro tirò fuori una pistola: “Gracias por el autogol” e trivellò con 12 colpi l'uomo inerme. Andres Escobar Saldarriga morì a 27 anni su un taxi diretto all'ospedale di Medellìn quella notte d'estate del 1994. Un calciatore fu ucciso per un errore dentro ad un campo di calcio. Un uomo fu ucciso a causa di una svista mentre giocava a pallone.

Humberto Muñoz Castro, l'assassino di Andres, venne condannato l'anno seguente a 43 anni di reclusione. Non venne mai rinvenuta alcuna prova certa del suo legame con il cartello del narcotraffico colombiano, ma le dinamiche furono fin troppo evidenti, e oggi nessuno dubita che quel gesto sia stato una rappresaglia dovuta a grosse perdite economiche da parte di organizzazioni illegali che avevano scommesso sull'andamento della nazionale a quel mondiale.

È buffo pensare che fino ad un anno prima il presidente della squadra di club per cui andres giocava, l'Atletico Nacional, era un suo omonimo, Pablo Escobar, che prima di essere ucciso nel 1993 dalla polizia colombiana aveva comprato il club di Medellìn. Il suo capitano morì proprio a causa del movimento di cui quel presidente era il principale simbolo.

Se crediamo che il dramma di quel mondiale sia stato il rigore fallito da Roberto Baggio in finale contro il Brasile, pensiamo per un momento ad Andres. Un uomo che venne ucciso perché aveva scelto di dedicare la sua vita ad un gioco che nascondeva, e tuttora nasconde, dentro di sé un seme marcio, corrotto e malato. Il seme che rappresenta l'unica vera grande sconfitta dello sport più bello del mondo.