Tango Calcistico è il primo libro di Andrea Costantino Levote.

Il giovane narratore calabrese ha iniziato la sua carriera sui campi da calcio di periferia, dei settori giovanili, sulle tribune scoperte, dove scarabocchiava una moleskine nera con appunti e soprannomi per i ragazzi.

Dopo aver frequentato la Scuola Holden vola in Argentina, per scoprire quanta distanza c’è tra le parole di Soriano, Galeano, Buffa e Pizzigoni, e la realtà oltre oceano.

Scopre un’Argentina meravigliosa, che lui definisce spesso “il porto accogliente per gli uomini di talento che si sentono soli”.

Torna con storie di tango e di calcio, due colori identitari del dipinto argentino, che arrivano proprio dalle navi. Tango Calcistico diventa così un luogo in cui convivono fotografia di vita e di storie. Biografie di uomini straordinari che hanno trovato il modo di far esplodere il proprio talento. Tra le note dei tanghi di Carlos Gardel, tra i dribbling di Alfredo Di Stefano, ballando sul passo di Diego Armando Maradona cantato da Victor Hugo Morales, la narrazione tiene sempre come sfondo e collante Buenos Aires.

L’estratto che proponiamo oggi è “La huelga di Di Stefano”, il capitolo otto di Tango Calcistico, dove Andrea ci racconta come lo sport spesso sia legato alla politica.

Tango Calcistico in questo momento è in campagna di crowfunding, organizzata da Bookabook Editore. Per scoprire di più, per seguire il percorso del libro, o per preordinare la vostra copia, basta cliccare sul link https://bookabook.it/libri/tango-calcistico/

 

 

CAPITOLO VIII

 

“La huelga di Di Stefano”

 

 

4 maggio 1949.

 

<<Pronto? Sono Antonio Vespucci Liberti, il presidente del River Plate, parlo con Ferruccio Novo?>>

 

<<Si sono proprio io. Ciao Antonio.>>

 

<<Ferruccio quello che è successo è una tragedia. Il dolore arriva fino a Buenos Aires. Una notizia tristissima. Voglio fare qualcosa per te, anzi per voi, per la società, per la città, per l’Italia. Organizziamo una amichevole. Raccogliamo dei fondi per ricostruire la squadra e io ti darò alcuni dei miei migliori giocatori.>>

 

<<Antonio mi commuovi. La tua disponibilità è apprezzata, ma so che in Argentina state giocando il campionato, non potete non giocare. Stai tranquillo. Grazie mille.>>

 

<<Non mi frega un cazzo del campionato. Giocheremo con la squadra di riserva e ti dirò di più, in Italia ti lascio Di Stefano. Basta solo che lui ti dica si.>>

 

 

 

1 novembre 1948.

 

<<Ci siamo, siamo tutti ad un passo dalla vittoria. Il River Plate, il Racing e l’Indipendiente si giocano il titolo ad un punto di differenza. Mancano poche giornate alla fine del campionato e questo è il picco più alto di attenzione su di noi. Questo è il momento di agire e di fare sul serio. Questa situazione non può andare avanti.

 

Da quanto tempo non venite pagati dai vostri club?

 

Qual è la differenza tra il vostro stipendio e quello dei vostri dirigenti?

 

Quante volte siete costretti a scegliere se vestire i vostri figli o se farli mangiare?

 

Nessuno di noi fa richieste assurde, pretendiamo giustizia e dignità. Come uomini, come lavoratori, come padri e come calciatori. Quando i vostri club vi dicono di non avere soldi, mentono sapendo di mentire. I campioni, quelli che attirano il pubblico, che fanno vendere i biglietti, che riempiono le tribune, prendono il vostro stipendio di un anno in un mese. Ma non dobbiamo puntare il dito contro di loro. La loro non è una colpa. Il talento non è una colpa. In questa situazione è la cattiva gestione, l’avarizia dei presidenti, ad essere un cancro da estirpare.

 

Nella mia vita io ho due grandi onori: aver contribuito a creare la Maquina e aver contribuito a mandare avanti questo sindacato. Perché è giusto che anche i calciatori siano rappresentati. È giusto che i loro diritti vengano difesi.

 

Io in questo momento non parlo come Adolfo Pedernera, il centravanti della Maquina. Parlo come il calciatore che vuole giustizia.

 

Per questo io dico che è arrivato il momento di incrociare le gambe. Lasciare gli stadi. Che ogni tribuna di Buenos Aires resti vuota. Che i biglietti restino invenduti. Da oggi, fino a data da destinarsi proclamo iniziato lo sciopero del calcio. Come nel 1931, meglio del 1931.>>

 

La Primera Division del 1931 è terminata sei giornate prima del previsto. L’Albiceleste deve giocare un’amichevole in Paraguay, ma l’appena formata Asociación Mutualista de Jugadores proclama lo stato di sciopero.

 

Al centro della protesta c’è la clausola candado, la clausola lucchetto, che impone due anni di fermo dall’attività agonista a chi firma per un’altra società senza il consenso del club in cui milita. Il sindacato dei calciatore decide così di usare le gambe non più per correre in campo, ma per marciare in direzione di Casa Rosada. La protesta ottiene risonanza mediatica perchè, tra coloro che protestano, ci sono anche alcuni dei convocati per l’amichevole di Asunción, che comunque viene giocata.

 

La vera preoccupazione del generale Josè Felix Benito Uriburu, arrivato al potere grazie ad un golpe l’anno precedente, è la gente che nelle piazze urla in coro da mesi “Libertad!”, non tanto i calciatori che non corrono dietro ad un pallone ma marciano davanti al simbolo del potere politico.

 

Uriburu decide di delegare la questione calcistica a Guerrico, che si prende il compito di mediare tra società calcistiche e sindacato dei calciatori.

 

La soluzione del problem solver del potere è netta: abbiamo bisogno del professionismo. Basta essere dilettanti. Alcuni calciatori risultano essere impiegati in aziende private, altri ricoprono incarichi pubblici, così giustificano le loro entrate economiche con gettoni di presenza e camuffano stipendi pattuiti con le società. Inoltre un calcio giocato da professionisti ben pagati è un calcio che garantisce spettacolo e dove c’è lo spettacolo ci sono i guadagni.

 

Delle trentasei squadre che hanno animato la precedente Primera División targata AAAF, diciotto concorrono a formare la Liga Argentina de Football (LAF). Boca Juniors, River Plate, Independiente, Racing, Estudiantes de La Plata, Huracán e San Lorenzo, quindi il meglio del calcio argentino, accettano. La AAAF prova, con un estremo tentativo, ad abolire la clausola candado, che aveva fatto iniziare la tempesta, ma è inutile: le squadre migliori son finite tutte nell’altra lega e quando, nel novembre 1934, le due federazioni si riuniscono, i club che nel 1931 avevano scelto di rimanere nell’AAAF si ritroveranno in Segunda División. Nella nuova AFA (Asociación del Fútbol Argentino) il pase libre, cioè la libertà per i giocatori di accordarsi con una squadra senza il consenso di quella in cui militano, ancora però non ci sarà.

 

Dopo diciassette anni il calcio argentino subisce un nuovo terremoto. Il professionismo non ha risolto i problemi del futbòl. Per essere più precisi, non ha risolto i problemi di tutta la categoria dei calciatori. Solo i grandi campioni sono davvero tutelati e ben pagati. Gli altri invece, vivono di incertezze e precarietà. Le entrate dei club non influiscono sulla paga dei calciatori, per i quali non è previsto un salario minimo.

 

Ed è questo il cuore del problema secondo la FAA (Futbolistas Agremiados Argentinos), sindacato creato nel 1944 dall’ex portiere dell’Independiente Fernando Bello e dall’ex attaccante de La Maquina, Adolfo Pedernera.

 

<<Alfredo, abbiamo bisogno di te. Lo sciopero è iniziato da due settimane e questi bastardi stanno facendo giocare le squadre giovanili. Fanno finta che non esistiamo, così è ancora più umiliante. Se uno dei campioni del tuo calibro aderisce allora questa lotta avrà davvero un valore, solo così il dare calci ad un pallone sarà stato qualcosa di davvero importante.>>

 

<<Adolfo, lo sai che io non ho mai chiesto di essere un campione, non ho mai chiesto di essere pagato più degli altri. Faccio la vita che ho sempre fatto. Sono cresciuto in posti in cui giocare a pallone è l’unica cosa che ti fa dimenticare di essere povero. Il rispetto per la vieja, per i bambini che ci guardano, quello come facciamo a dimenticarlo quando ci fermiamo?>>

 

<<Dov’è il rispetto per quelli che come te sono cresciuti per strada e oggi, che giocano in Primera Division, sono poveri come prima? Il calcio è un sogno per tanti di noi, ma per molti, a queste condizioni, non è la soluzione. Quanti dei tuoi compagni che si allenano le stesse ore che ti alleni tu vengono pagati meno della metà di te? Quanti ragazzi che corrono più di te vengono pagati in ritardo di quattro o cinque mesi? Non è anche grazie a loro che sei un campione?>>

 

<<Certo. La Maquina mi ha insegnato proprio questo. Fai il movimento per il tuo compagno, muoviti per creargli gli spazi, gioca la vieja di prima, bene e velocemente così ti arriva un pallone migliore da giocare.>>

 

<<Ora Alfredo non sono solo i tuoi compagni ad aver bisogno di te, è tutto il calcio argentino. Tutto il movimento ha bisogno della forza del nome di Di Stefano.>>

 

<<Va bene Adolfo. Ci sto. Sono dentro.>>

 

Nelle ultime cinque giornate della Primera División del 1948 i club mandano in campo le squadre giovanili, un gesto ancor più provocatorio del non giocare affatto.

 

Quando il 1949 albeggia, il mondo del calcio fa da spettatore non pagante. Tutto resta in una preoccupante immobilità. Il campionato non parte. Il calcio si gioca solo per strada.

 

In Argentina sono abbastanza abituati agli scioperi. Non solo il calcio si era fermato qualche anno prima, ma anche il popolo aveva scioperato per scegliere chi avere alla guida della nazione. Il 9 ottobre del 1945 infatti Juan Domingo Peron, che guidava il Paese, fu costretto alle dimissioni dal governo dai suoi oppositori all'interno delle stesse forze armate e fu arrestato poco dopo.

 

Il 16 ottobre fu internato all'ospedale militare di Buenos Aires per una malattia, vera o fittizia. Lo stesso giorno la CGT (Confederazione Generale del Lavoro) si riunì e proclamò uno sciopero di ventiquattro ore per il 18 ottobre. Il popolo però esausto, iniziò a non dare più ascolto nemmeno ai sindacati. Il 17 ottobre, senza che nessuno avesse dato l'ordine, non ci fu lo sciopero, ma la rivoluzione, passata alla storia come la marcia dei descamisados. Sotto il cielo incandescente di Buenos Aires, gli uomini sudati a causa del gran caldo, che avevano occupato Plaza de Mayo, si erano tolti le camicie, esigendo la liberazione di Perón, e gli stessi generali che lo avevano arrestato furono costretti a richiamarlo al Governo. Quel 17 ottobre, el Día de la Lealtad peronista, il popolo di Peron fu per sempre quello dei descamisados.

 

Forse proprio per questo lo sciopero prolungato e testardo del mondo del futbòl inizia a preoccuparlo. Peron ha fatto della politica per le attività sportive il suo punto di forza per il primo anno di mandato. I giornali iniziano l’anno gonfiando le loro pagine con un titolo ricorrente: “LA HUELGA DI DI STEFANO”. Lo sciopero di Di Stefano è ormai uno dei principali temi caldi, dai salotti politici a quelli sportivi.

 

Il campionato resta fermo per cinque mesi.

 

A fare da mediatore questa volta è una delle donne più importanti d’Argentina, Eva Duarte, seconda moglie di Peron, per tutti Evita. La Gran Mujer gestisce non solo i rapporti pubblici del marito, ma anche i sindacati e le associazioni. La questione si risolve quando il tira e molla sul salario trova il punto d’equilibrio.

 

il Ministero del Lavoro accetta le richieste dei giocatori e introduce un salario minimo, ma allo stesso tempo anche un tetto di 1500 pesos. I grandi giocatori, però, sono abituati a compensi ben più alti e le società capiscono subito che non potranno trattenerli. Provano allora a monetizzare cercando acquirenti all’estero, ma la regola per gli scambi tra club, che aveva originato la protesta del 1931, formalmente non è cambiata e, quindi, il giocatore può finire solo in una società gradita a quella di partenza.

 

Mentre in America nasce la NBA, in Colombia si crea la Division Major, il primo campionato professionistico a tutti gli effetti. Ma la Division Major non è riconosciuta dalla FIFA, e questo è un vantaggio e uno svantaggio allo stesso tempo: il vantaggio è che in un’epoca di vincolo e contratti annuali, le società possono prendere qualsiasi giocatore e pagarlo qualsiasi cifra; lo svantaggio è che i giocatori rischiano la squalifica.

 

<<Ciao Alfredo, come stai? Ho saputo che non è stato un periodo facile per te. Mi dispiace.>>

 

<<Ciao Adolfo, no per niente. Anche se non abbiamo giocato ho continuato ad allenarmi ma mi sono fatto male. Il River ha subito preso la palla al balzo per mettermi in tribuna dato che sono stato il motore dello sciopero, o almeno così è stato per i giornali. Ora che il campionato è cominciato, se sto in panchina mi fischiano e se sto in tribuna pure.>>

 

<<Alfredo, ho trovato la soluzione per farmi perdonare.>>

 

<<Sentiamo Adolfo.>>

 

<<Devi venire in Colombia. Ho già parlato con il presidente dei Millionarios di Bogotà, sarebbe felice di averti in squadra. Io gioco qua da poco, ma ho guadagnato più di quanto ho preso in tutta la vita con il River. I veri Millionarios sono qua in Colombia, altro che Liberti e i lingotti d’oro.>>

 

<<Non so Adolfo. Lasciare l’Argentina non è un’idea che mi piace. Io voglio vincere il mondiale per questa gente, con questa maglia.>>

 

<<E intanto ti fischiano e ti mettono in panchina. Lascia stare l’Argentina. Meriti una vita adeguata al tuo talento. Dico al presidente che ci stai?>>

 

 

 

4 maggio 1949

 

Sono le ore 17.05 e il G212 s’immerge in una nube che sovrasta le colline torinesi. Pochi istanti. Poi il terribile schianto.

 

Il calcio di tutto il mondo si ferma.

 

La più grande squadra italiana di tutti i tempi non giocherà mai più. Tradito dagli strumenti di bordo, il pilota non si accorge di volare dritto contro la scarpata della Basilica di Superga. L’aereo esplode come una bomba. Nessuno sopravvive. Sul posto si ritrovano i resti delle valigie di Mazzola, Maroso ed Erbstein. Il portafogli di Baccigalupo, con dentro la foto di Sentimenti IV, suo rivale in nazionale, ma suo idolo sul campo. Ad un uomo fu assegnato il compito di riconoscere i corpi, o quel che ne restava: Vittorio Pozzo, allenatore del Grande Torino e della nazionale italiana che per dieci undicesimi era composta da quel Torino, l’uomo che più di tutti conosceva i suoi calciatori.

 

26 maggio 1949

 

Se River Plate e Torino si fossero incontrati prima della tragedia di Superga, la stampa italiana e quella argentina avrebbero forse conferito alla vincitrice il titolo di squadra più forte del mondo. La Maquina contro il Grande Torino.

 

Ma quel 26 maggio 1949 non è la sfida calcistica per il trofeo. Non è nemmeno una partita amichevole. È un incontro commemorativo e del Torino in campo quel giorno c’è solo il simbolo. Il River Plate arriva a Roma in aereo da Buenos Aires dopo 34 ore di volo e scali a Rio de Janeiro, Dakar e Lisbona; ad appena ventidue giorni da quel tragico 4 maggio, è lì, in campo al Comunale, per disputare una partita il cui ricavato andrà in parte alle famiglie delle vittime. Della vecchia Maquina ci sono: Vaghi in difesa, Yácono a centrocampo, Labruna e Loustau in attacco, punta Alfredo Di Stefano.

 

Di fronte al River Plate si schiera una squadra composta da giocatori di Juventus, Inter, Milan del calibro di Sentimenti IV, Boniperti, Nyers e Nordahl, cui vanno aggiunti il fiorentino Furiassi, il portiere del Bari Giuseppe Moro e Pietro Ferraris del Novara. Il nome scelto è Torino Simbolo e non c’è bisogno di spiegare il motivo.

 

Il risultato finale è 2-2 e sul tabellino dei marcatori finiscono Nyers, Labruna, Annovazzi e Di Stefano.

 

L’emozione è così grande da creare un legame fortissimo tra le due squadre, al punto che negli anni Cinquanta si vedrà il Toro giocare in maglia bianca con striscia granata diagonale e il River Plate in maglia granata.

 

Finita la partita, prima di ripartire, Ferruccio Novo e Antonio Vespucci Liberti si fermano con Di Stefano.

 

Il momento di chiudere l’accordo è arrivato.

 

<<Allora Alfredo, l’accordo è questo: tu vieni a giocare in Italia, giocherai in una squadra con una grande storia, la più vincente, sarai la pietra su cui ricostruire tutto. Il pubblico applaudirà alle tue giocate. Sarai un idolo in Italia. In più il 15% del prezzo del tuo cartellino va a te. Ci stai?>>

 

<<Mi dispiace. Ho già preso accordi con i colombiani.>>