Ci sono alcune immagini che, grazie alla loro potenza comunicativa, riescono ad imprimersi nell’immaginario e, anche se non se ne conosce l’origine, finiscono per divenire patrimonio collettivo perché rappresentano un insieme di valori e ideali condivisi. Spesso nella storia ciò avviene come risultato di processi che muovono dal basso e proprio per questo sono ricchi di significati e di memoria.

Non fa eccezione la storia dell’immagine A la libertad por el Futbol del famoso artista Banksy. L’opera trae ispirazione dall’esperienza compiuta in Chiapas dall’artista assieme alla squadra di calcio amatoriale nella quale militava, l’Easton Cowboys and Cowgirls, nel 2001. La società, nelle parole di uno dei suoi fondatori, è “un club sportivo con una dimensione politica”, “anti-razzista, anti-sessista, contro l’omofobia... che tenta di promuovere un ambiente inclusivo”. La squadra si era recata nel sud-est messicano presso le comunità autonome zapatiste, ed aveva disputato alcune partite contro la selezione formata dai ribelli dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN).

Gli incontri avvennero all’interno di un progetto a supporto delle comunità indigene insorte il 1° gennaio 1994 per rivendicare terra, giustizia e libertà a fronte di uno stato messicano ed un modello economico globale che storicamente le negano. In questo contesto l’artista, al tempo ancora sconosciuto, aveva dipinto alcuni murales all’interno delle comunità, tra cui la famosa immagine che rappresenta un insurgente (combattente zapatista) con il passamontagna ed il kalashnikov che compie una rovesciata sullo sfondo di una stella rossa.

La potenza dell’immagine trascende la dimensione dell’esperienza personale dell’artista ed anche quella della resistenza zapatista nello specifico. Rappresenta il paradigma di una concezione di calcio, e più in generale di sport, che grazie alla propria natura popolare e comunitaria diviene il motore per lo sviluppo di questo tipo di reti e legami di solidarietà che promuovono il cambiamento sociale e politico.

In questo senso l’immagine e la storia della sua origine si intrecciano con la memoria locale del progetto avviato nel territorio veneziano, con il nome di Estadio del Bae, dedicato all’ultras e attivista Francesco, detto “Bae”. L’incontro tra “A la libertad por el futbol” e il progetto avviene nel marzo 2001 durante la Marcha del Color de la Tierra, che, partendo da San Cristóbal e attraversando dodici stati della repubblica messicana, accompagnò la delegazione zapatista fino allo Zócalo di Città del Messico, per gridare alla nazione e al mondo intero ¡aquí estamos! e chiedere al Congresso del paese il riconoscimento dei diritti indigeni.

Erano gli anni di Genova, di “un altro mondo e un altro calcio possibile”, anni di lotte e di speranze in cui lo zapatismo era il faro per tante e tanti. Francesco, come molti in quel periodo, nello zapatismo vedeva la possibilità reale di costruire un mondo più giusto, per questo, assieme ad altri compagni del Centro Sociale Rivolta, decise di partire e partecipare alla marcia. Purtroppo il destino mise i bastoni fra le ruote e Francesco non fece in tempo ad esaudire questo suo desiderio: così, con gli occhi ancora gonfi di lacrime, i suoi compagni del Centro Sociale attraversarono il grande oceano per partecipare alla carovana e in un piccolo villaggio nel cuore della selva Lacandona e culla della ribellione, La Realidad, si trovarono di fronte a quel mural appena dipinto dall’allora sconosciuto artista inglese. Quel mural che sintetizzava così bene sport e rivoluzione divenne subito il simbolo della promessa che i suoi fratelli, amici e compagni fecero davanti al melograno piantato in suo ricordo nel giardino del Rivolta: “ti porteremo in Chiapas, Bae”.

Fu così che l’immagine A la libertad por el Futbol sbarcò nella laguna veneziana divenendo il simbolo del progetto “El Estadio del Bae”, che negli anni a venire consentì di sviluppare numerosi progetti a supporto delle comunità autonome del Chiapas per sostenere la causa zapatista, che aveva fortemente ispirato lo stesso Francesco.

Queste analogie non rappresentano però curiose coincidenze storiche, sono la rappresentazione plastica di una concezione condivisa di calcio e di sport che si esprime all’interno di una dimensione territoriale, al servizio della comunità di riferimento, e si alimenta attraverso una dimensione più ampia, estendendo la solidarietà e la fratellanza ad una prospettiva internazionale.

Il mondo che sta dietro a questa immagine, il calcio rappresentato in quest’opera, risulta chiaramente antitetico rispetto alla mercificazione del sistema calcio attuale, ai suoi obiettivi, alle sue prerogative ed al ruolo che si ritaglia nella società. Quest’immagine dunque rappresenta un simbolo, un manifesto per coloro che si ostinano a non volersi omologare a tale modello e, attraverso il calcio e lo sport, incrementano la cooperazione ed i legami che attraversano oceani e scalano montagne, che resistono attraverso gli anni.

foto di Christian Peverieri (La Realidad, 2003)