Nonostante il mio vicino di pianerottolo sia un ex giocatore di baseball, e al primo piano del mio edificio sia venuto a vivere un ex allenatore di baseball, non credo di azzardare troppo e offenderli, nel sostenere che il baseball in Italia è uno sport minore, praticato da pochissime persone.

La stessa cosa deve averla pensata Eriberto Jimenez Melo che, se fosse venuto a trovarmi a casa, forse non avrebbe fatto la stessa scelta che ha fatto nella vita. Ma chi è costui? Un buon battitore, uno che gioca, o forse giocava, nella nostra seria A di baseball, per l’esattezza un giocatore della Crocetta Parma. Fin qui nulla di strano, un buon giocatore, ma non in grado di arrivare a essere un fenomeno da potersi trasferire negli Stati Uniti per diventare milionario. Il problema di Eriberto però non erano i soldi, ma non farsi riconoscere. Non era il tipico giocatore timido, che per restare lontano da riflettori e paparazzi cercava campionati minori, è che per giocare usava un altro nomignolo, anzi un nome intero. Non è che tale scelta fosse dovuta a un vezzeggiativo o qualche soprannome che i sudamericani trasformano in nome, quando si tratta di sport, stampandolo ben chiaro nella maglia. Macché, Eriberto usava il nome di Marco Cesar da Silva Freitas perché era un narcotrafficante internazionale. Per il Regno Unito risultava addirittura uno dei dieci latitanti più pericolosi in circolazione. Ora dico, siamo abituati a sportivi che si fanno paparazzare con prostitute e droghe, ma si può sentire che un narcotrafficante  si è fatto beccare perché gioca in serie A a baseball? Non poteva con i proventi del suo vero lavoro comprarsi un giardino e giocare lì con gli amici? È come se Riina si fosse messo a giocare a calcio nella serie A ungherese. Hai voglia a essere timido, ma prima o poi ti beccano. Sennò diventi presidente del Senato, non cambi nome, e magari ti beccano tardi tardi tardi…

 

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