A Caltanissetta, nell’entroterra siciliano, è nato un nuovo progetto che promuove lo sport come veicolo di coesione sociale e solidarietà attiva. Di seguito un’intervista ad uno dei promotori di questa nuova avventura, Salvatore Mendolia.

 

Quando nasce “Qal'at al-Hurriya”? Chi sono i fondatori di questo progetto? Qual è il significato del nome che avete scelto per questo progetto? Quali sono gli obiettivi che vi proponete di realizzare?

L'intenzione di fare attività sportiva popolare nacque già l'inverno scorso durante una delle tante chiacchierate con i compagni del collettivo ContAnimAzione, che avevamo creato qualche mese prima in città. Eravamo un piccolo gruppo e dopo qualche tempo ognuno prese strade diverse facendo sfumare il progetto. Tuttavia in estate sentii parlare in televisione della promozione in Prima Categoria dei ragazzi dell'Afro-Napoli United, squadra nota per essere la prima realtà sportiva spiccatamente multiculturale in Italia. Quella fu come una folgorazione per me e mi ripromisi di mettere in piedi qualcosa del genere appena ne avessi avuto l'occasione. E dopo poco tempo inaspettatamente l'occasione arrivò: a inizio novembre, in attesa di frequentare un corso come operatore della mediazione, il mio amico fraterno Aziz Amraoui mi propose di collaborare con l'Associazione Interculturale Nissetnica, di cui è presidente e co-fondatore. Ovviamente accettai subito e il giorno dopo gli proposi di allestire una squadra coi nostri amici e conoscenti stranieri (per lo più marocchini, tunisini e nigeriani) appassionati di calcio, per costituirci ufficialmente come associazione sportiva dilettantistica. Aziz accolse con grandissimo entusiasmo la mia proposta e quella sera iniziò la nostra avventura sportiva.

Il nostro nome riprende l'antica denominazione araba della fiorente Caltanissetta medievale, Qal'at an-Nisa (Cittadella delle Donne), a cui abbiamo aggiunto il termine arabo hurriya, ossia libertà. L'intento che ci siamo proposti è proprio quello di diventare una piccola cittadella della libertà, un luogo fisico e mentale in cui le differenze culturali possano creare un arricchimento morale per tutti coloro che parteciperanno al progetto.

Nascendo all'interno di un'associazione che si occupa dei problemi degli immigrati, il nostro obiettivo fondamentale è quello di instillare i valori sani dello sport nel complicato processo di sviluppo del tessuto sociale nisseno, contribuendo al già lungo e faticoso lavoro svolto in questi anni da Nissetnica. Caltanissetta, pur essendo intrisa di pregiudizi e molto poco avvezza all'apertura verso l'altro, infatti ha un potenziale di crescita multiculturale non indifferente, e poter creare momenti di aggregazione e solidarietà attiva utilizzando lo sport come strumento universale può realmente contribuire all'integrazione dei cosiddetti nuovi cittadini e all'abbattimento delle barriere culturali, economiche e religiose. I nostri obiettivi sono sicuramente molto ambiziosi ma penso che se non si punta in alto e non si crede nel cambiamento non si può andare da nessuna parte.

Dal punto di vista sportivo, avete degli obiettivi ben precisi da raggiungere? Farete parte di qualche torneo?

Più che di obiettivi sportivi parlerei di obiettivi economici, perché come si dice dalle mie parti “senza grana u parrinu missa nun ni canta” (senza soldi il prete non dice messa). Infatti la nostra più grande scommessa è quella di raggiungere in tempo la somma necessaria per poter condurre senza patemi il prossimo campionato provinciale di Terza Categoria. Quello sì che sarebbe un grande risultato sportivo per noi che possiamo contare quasi esclusivamente sulla generosità dei nostri sostenitori! Una volta sul campo potremmo esprimere il nostro potenziale agonistico, che in tutti i casi è di prim'ordine. Come è noto ogni vittoria sul campo è il frutto di un proficuo lavoro di squadra, e ciò a cui stiamo lavorando è un gruppo solido, compatto e soprattutto il più corretto e leale possibile, proprio per sopperire alle difficoltà sportive ed extra-sportive che si possono incontrare durante una stagione agonistica. Per ora ci alleniamo in giro per i campetti della città e prepariamo le gare amichevoli che ci consentiranno di farci conoscere e di raccogliere fondi per la squadra. A questo proposito sono felice di dire che il 4 gennaio prossimo ci sarà il nostro esordio assoluto. Disputeremo un quadrangolare di calcio a 5 che abbiamo organizzato in collaborazione con la locale delegazione provinciale FIGC e sarà dedicato a Saamya Yusuf Omar, un'atleta somala che ha perso la vita in mare nel tentativo di raggiungere l'Europa. Per i prossimi mesi abbiamo in programma una serie di iniziative sportive e culturali di raccolta fondi e di promozione dello sport solidale, tra cui anche un torneo regionale di cricket, proprio perché la nostra volontà è quella di coinvolgere il maggior numero di stranieri nel nostro progetto di integrazione nello sport, che ci auguriamo possa diventare una vera e propria polisportiva popolare e multiculturale.

Chi sono le persone migranti che compongono la vostra da poco nata realtà sportiva? Da quali paesi vengono? Cosa fanno nella vostra città? Potete raccontarci qualche storia di vita di queste persone?

Proponendoci di rappresentare il più ampiamente possibile la realtà multiculturale locale, il nostro gruppo accoglie, a vario titolo, persone che provengono da svariate parti del mondo e da diverse situazioni culturali e sociali. Per essere più chiari, lo zoccolo duro da cui abbiamo pensato di allestire la nostra squadra di calcio è composto principalmente da immigrati marocchini che in questi anni hanno partecipato a vari tornei locali di calcio a 5 e hanno accettato di far parte del nostro progetto calcistico, condividendo in pieno i nostri principi e le modalità di autogestione di tutti gli aspetti sportivi della squadra. La maggior parte di loro fa parte della seconda generazione di immigrati della comunità marocchina di Caltanissetta e sono, chi più chi meno, abbastanza integrati nel contesto cittadino. A partire da questo gruppo già socialmente e sportivamente consolidato avvieremo un processo di graduale integrazione di altri nostri amici e conoscenti, immigrati e italiani, che vorranno sostenerci nel processo di amalgama multiculturale della squadra. In particolare a partire dai prossimi allenamenti pensavamo di invitare un gruppo di compagni antirazzisti e antifascisti che si sono proposti di sostenerci anche in campo; un gruppetto di ragazzi nigeriani, di cui almeno un paio hanno già avuto esperienze in squadre locali; e alcuni ragazzi tunisini. Già così saremmo una trentina, e da qui a un paio di mesi potremmo fare una prima scrematura per dare sempre più concretezza alla parte prettamente tecnica del progetto sportivo e poter ricevere candidature esterne alla cerchia delle conoscenze personali. Inoltre per non tagliare fuori quegli stranieri che non praticano il calcio, come i pakistani e gli afghani che a Caltanissetta sono presenti in numero sostanzioso, faremo attività in altre discipline (pallacanestro, atletica leggera, cricket, arti marziali, ecc.), ma in tutti i casi chiunque farà sport con noi avrà la stessa importanza e la stessa voce in capitolo all'interno dell'associazione sportiva che si andrà a costituire.

Abbiamo pensato di procedere coinvolgendo per lo più stranieri con permessi di soggiorno di lunga durata perché dal punto di vista burocratico i tempi per il tesseramento degli atleti con status particolari, tipo rifugiati o richiedenti asilo, sono abbastanza lunghi e ci potrebbero essere intoppi che ostacolerebbero l'avvio della nostra avventura sportiva, anche se fondamentalmente non ci poniamo nessuna condizione che possa in qualche modo limitare o discriminare qualcuno all'interno del nostro progetto calcistico. Per quanto riguarda l'attività non ufficiale tuttavia non abbiamo previsto nessuna particolare politica di tesseramento, proprio perché la nostra volontà è quella di coinvolgere senza limiti tutti coloro che vorranno fare sport insieme a noi.

Dal punto di vista squisitamente umano risulta evidente, vivendo la quotidianità del nostro territorio con i nostri ragazzi, che le loro aspettative future sono pesantemente condizionate dal fatto di essere stranieri. Infatti i ragazzi che si trovano in Italia da molto tempo, come quelli provenienti dalle famiglie della comunità marocchina, vengono automaticamente relegati ai margini della società e devono lottare con le unghie e con i denti per ritagliarsi una collocazione dignitosa nel contesto sociale, il tutto subendo discriminazioni, soprattutto a causa della lingua, trovandosi costretti ad accettare lavori faticosi e sottopagati che gli italiani non vogliono fare, ovviamente a nero, e dovendo vivere in veri e propri quartieri-ghetto (tipo il rione Provvidenza qui a Caltanissetta), tristemente noti per il degrado e la fatiscenza dei caseggiati. Insomma ci si arrangia, in qualche modo. Ancor più problematica è la condizione di quei ragazzi che, usando un eufemismo, “godono” dello status di rifugiato o sono in attesa di ottenerlo. Loro si trovano in una una situazione di limbo in cui pur dovendo ricevere un'accoglienza dignitosa dalle istituzioni e dalla società in generale, sono lasciati soli e inevitabilmente trovano rifugio e ospitalità nelle piccole comunità di connazionali, che in tutti i casi tendono a ghettizzarsi e autoescludersi, con il risultato di essere visti come una minaccia, come quelli che non hanno niente da perdere, che “ci rubano i luoghi di aggregazione”. Riuscire a lavorare con qualcuno di questi ragazzi è per noi una grande vittoria e riuscire ad organizzare attività dedicate anche a loro sarebbe un ulteriore slancio verso un'integrazione che sia più inclusiva possibile.

Per quanto riguarda, infine, le decine e decine di storie personali dei ragazzi che ho conosciuto fin ora, posso dire che ho sentito veramente di tutto! Da Mohammed, marocchino che si è trovato sul barcone in avaria per quattro giorni senza acqua da bere, vedendo i suo amici morire uno dopo l'altro in preda alle allucinazioni, a Samir, tunisino che ha deciso di salire su un barcone quasi per gioco e dopo la traversata ha avvisato i suoi genitori di essere in Italia, da Ali che è fuggito a sedici anni da un campo di Mujaheddin in Pakistan, ad Emmanuel che è stato adottato ancora in fasce e non ha mai conosciuto la sua terra, la Nigeria. Ce ne sarebbero davvero tantissime da raccontare, e infatti pensavamo di farne libro o un documentario, un giorno o l'altro.