Intervista ad Anna Ramazzotto, attivista della Palestra Popolare Galeano di Padova, che insieme a tanti altri attivisti di varie realtà italiane hanno partecipato alla marcia OvertheFortress portando solidarietà ai profughi del campo di Idomeni, sul confine greco – macedone, ad oggi sgomberato. Attualmente Anna partecipa insieme ad altre realtà italiane ed europee al “No border camp” di Salonicco, campeggio che si terrà in Grecia contro ogni confine e discriminazione.

 

Come attivista hai partecipato alla campagna “overthefortress” recandoti ad Idomeni, nel campo profughi dove si sono sviluppate anche situazioni ludiche e sportive che avrai potuto apprezzare meglio data la tua esperienza come parte attiva della Palestra popolare Galeano. Ci puoi raccontare alcune scene ed il significato di tipo aggregativo di quello che è accaduto?

Lo scorso Marzo la carovana Overthefortress ha raggiunto il campo profughi di Idomeni. I miei compagni ed io, alcuni di loro attivi anche nel contesto sportivo e provenienti dalla Palestra Popolare Galeano come me e non solo, abbiamo pensato di far parte di un gruppo nel campo che si sarebbe occupato delle attività con i bambini, attività ovviamente di tipo ludico-sportivo. Entrare ad Idomeni è stato come entrare in un film: tutte quelle persone, tutti quei bambini costretti a fuggire per cercare la sopravvivenza, bloccati da almeno quaranta giorni al confine greco-macedone, ricchi solo di sconforto, non potevano non riempirci di sentimenti contrastanti e forti. Ho guardato i miei compagni per qualche istante attraversando il campo e ritrovare le mie stesse sensazioni in loro, tra occhi lucidi e pettorine arancioni, e questo mi ha ridato il senso di quello che stavamo facendo. Devo ammettere che quel pallone tirato, quasi subito dopo il nostro arrivo, e quella partita di calcio nata da sola, dico davvero, nata senza la minima organizzazione, ha dato ancora di più segno e spirito di ciò che stavamo andando a fare: portare il nostro sostegno e il nostro aiuto ai rifugiati, a queste persone la cui unica cosa che hanno è il sacro attaccamento all'esistenza. Insomma è bastato poco: mostri la palla, due gesti rapidi per chiamare qualche ragazzo e sei subito in sfida. Galeotto fu l'entusiasmo di una ventina di ragazzi, non importa di dove e di che età, che rincorsero il pallone. Erano i bambini a trascinarci in sfrenati girotondi e in rapidissime sfide di giochi con le mani. Ho sentito il forse naturale bisogno di scrivere un messaggio a mia madre: subito sbucano due manine che mi prendono il telefono, io sospettosa guardo negli occhi quella bambina che invece mi infila il cellulare in tasca, mi prende le mani e di tutto punto suggerisce "with me, with me my friend" con un sorrisone. Credo di non essermi mai sentita più piccola di così… E via a giocare: abbiamo provato a "organizzare" qualche gioco, ma era chiaro che la situazione era in mano loro e poco importava a quel punto chi era l'adulto e chi il bambino, chi imparava cosa da chi, ci si scambiava più vita che palloni. Ti rendi conto di quanto l'aggregazione sia fondamentale, in quanto fenomeno del tutto spontaneo e naturale in una situazione del genere. L'aggregazione non si creava, si faceva, esisteva, era forte e necessaria, era viva, eravamo con loro davvero.

In una situazione come quella di un campo profughi come è stato quello di Idomeni, che tipo di attività sportive possono essere più indicate? Si può praticare qualsiasi sport? Al di là di ogni facile retorica, quale può essere il valore di una pratica sportiva in una situazione come quella di un campo profughi?

Lo spazio ad Idomeni era davvero tanto… nella pratica si sarebbero potuti realizzare tutti quegli sport che non necessitano di grandi attrezzature; il più facile è ovviamente il calcio, probabilmente perché è il più famoso ed immediato e necessita solo delle porte che li comunque in effetti erano già presenti. Il salto alla corda e il tiro alla fune con i piccoli, che insegna anche la forza dello spirito del gruppo, per esempio, erano altre delle attività che già altri volontari facevano praticare. Quindi, in modo particolare con i bambini, lo sport non veniva separato dal gioco: lo sport nell'infanzia deve essere prima di tutto divertimento e socialità; nel bambino, come anche nell'adulto, soddisfa la necessità di muoversi, di conoscere il proprio corpo, di sentirne limiti e forza. Lo sport è movimento, e la libertà di muoversi è la battaglia di Overthefortress. Abbiamo cantato tantissimo, coinvolgendo gruppi di numerosi bambini che con animati balli di gruppo in una divertente lingua ormai sporca di italiano, hanno fatto perdere la voce ad un paio di compagni. Questo tipo di attività sono state davvero necessarie e fondamentali all'interno del campo; detto banalmente, chi vive in condizioni simili, passa le sue giornate ad "attendere". Ad attendere il proprio turno per un pasto, ad aspettare prima la sera e poi il mattino, ad aspettare novità da chi regge le fila dall'alto sulla loro situazione. C'è poco da fare e tanto da sfogare: personalmente penso che le attività ludico-sportive, e tutte le altre attività messe in pratica dai volontari permanenti come la scuola d'inglese, fossero parte importantissima, linfa vitale, per chi è costretto a vivere così. In tutti quei bambini, la prima cosa che senza dubbio si poteva notare era l'esuberanza nell'usare il loro piccolo corpo: desiderosi di contatto fisico, umano, sprigionavano una forza fisica nel gioco che ancora mi rimane impressa. Ti prendevano le mani, volevano stare in braccio, non ci sono parole per esprimere tanta concretezza: necessitavano di soddisfare qualsiasi bisogno legato alla fisicità che può avere un bambino. il diritto di giocare, è ciò che li rende bambini, ma perché giocare è insito nella natura, è istinto, è una forza che deve essere espressa. E sento io, come tutti i compagni e volontari che credono in questi progetti, in modo particolare per quei bambini, il dovere di ridar loro il diritto di essere bambini. Soddisfare il contatto che, in quelle situazioni, i loro genitori (o gli altri adulti per i bambini che non hanno avuto la fortuna di potersi spostare con la famiglia) non riuscivano a colmare pienamente, giustificati dalle conseguenza psicologiche che il loro vissuto li portava a provare. Sono persone, grandi e piccole, che vivono il trauma della fuga, dell'abbandono, spesso della morte e della tortura, costrette a rinunciare alla vita per sopravvivere.

L'Unione Europea finanzia le barriere di filo - spinato a Ceuta e Melilla in Spagna, sgombera barbaramente il campo di Idomeni al confine greco - macedone, fa "accordi ponte" con la Turchia per bloccare la mobilità dei profughi provenienti dal medio - oriente, non impedisce ai paesi dell'est europa di mettere filo spinato ai confini della Balcan Route e poi, per la giornata del rifugiato dello scorso 26 giugno, fa una campagna dal nome "SupportRefugees" con i calciatori Marouane Fellaini (nazionale belga) and Anja Mittag (nazionale tedesca). Pensi che si possa parlare di un uso strumentale dei protagonisti del mondo dello sport?

Penso siano tanti i casi in cui effettivamente vi è un uso strumentale dello sport "mediatico", famoso, chiamiamolo così... ma in effetti, si è parlato così tanto di immigrazione e rifugiati negli ultimi tempi che fare passare questo momento, e in particolare gli eventi di questo ultimo anno, silenziosamente sarebbe stato impossibile. La stessa Europa che alza muri, ha cercato quindi in modo pubblicitario e appunto strumentale di non mostrarsi disinteressata e insensibile rispetto alle circostanze, utilizzando gli ultimi europei di calcio per dare una parvenza di "ce ne stiamo interessando", ma certo non lo si può definire un tentativo di sensibilizzazione reale. Basti pensare all'ipocrisia che si riscontra nel momento di tesseramenti e cartellini di atleti e giocatori stranieri per giocare in una squadra: se non risulta un'operazione impossibile, è quantomeno un'azione complessa e non priva di difficoltà e ostacoli. Lo sport che pubblicizzano come "di tutti", di tutti di fatto non è. Tuttavia ci sono casi reali di attenzione e sensibilità rispetto questo tema nello sport: basti pensare alle tifoserie di alcune squadre e di striscioni "welcome refugees "spuntati in qualche tribuna di stadi europei, soprattuto tedeschi, appena iniziata la crisi di emergenza sulla Balkan Route, o al più famoso Saint Pauli, storicamente sensibile alle questioni dello sport antirazzista e inclusivo. Il lavoro più grosso e la presenza maggiore rimane comunque quella delle polisportive popolari: in questi casi lo sport è davvero aggregativo e si fa dello "sport di tutti" un vero grido di battaglia; nello sport mediatico purtroppo, a volte diventa complesso se non impossibile distinguere passione e denaro, soprattutto ai vertici. Nello sport popolare, per fortuna, diventa complesso distinguere la passione per lo sport dal suo reale scopo di essere davvero diritto di tutti: per il benessere fisico e mentale, per divertirsi, e per il dovere di ogni persona di essere chi desidera essere, calciatore, boxeur o ballerino, nero, bianco, europeo o mediorientale, femmina o maschio che sia.

 

 

 

 

 

Nella foto in basso, delegazione degli attivisti del Nord - Est in viaggio verso il No Borders Camp di Salonicco. Sullo striscione campeggia la scritta "Love Sport, hate racism"