Restano innanzitutto ventisette azioni di protesta in 23 giorni. Diciotto, per la precisione se si escludono i tre giorni in terra palestinese e i due di riposo: una media di oltre una al giorno. Eppure, di queste proteste, non ne troverete traccia sul sito ufficiale, sulle maggiori testate giornalistiche, tantomeno su Wikipedia o sui siti specializzati. Ma ci sono nell’etere: sarà sufficiente digitare le “parole magiche” #cambiagiro, #civediamoingiro o #shameongiro per essere catapultati in una realtà censurata ma che ha accompagnato dal primo all’ultimo giorno la manifestazione sportiva.
 
Solo a Catania, al ritorno in territorio italiano dopo le tre tappe della vergogna, si è respirata tensione con le forze dell’ordine che proteggevano l’evento: le botte agli attivisti non hanno comunque evitato di far ritardare di 15 minuti la partenza della tappa. Sullo Zoncolan alcuni attivisti sono stati fermati dalle forze dell’ordine che però sono stati costretti a limitarsi a chiedere le generalità con toni molto arroganti, non potendo imputare agli attivisti “porto illegale di bandiera palestinese”. A Roma il comune ha creato una zona verde a protezione del circuito dell’ultima tappa in cui è stato vietato manifestare, ma anche questa misura e le cariche e i fermi della giornata conclusiva contro gli attivisti, non ha impedito le prese di posizione in solidarietà col popolo palestinese. Poi, in tutto il percorso, da Caltagirone alla Val di Susa, un susseguirsi di striscioni in solidarietà con il popolo palestinese, di scritte “Palestina libera” sull’asfalto, di sventolio di bandiere palestinesi. Sul sito del BDS, il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e il sanzionamento di Israele, che ha coordinato le proteste, trovate tutte le foto di ogni singola azione.
 
Cosa resta dunque di questa edizione del Giro d’Italia? Rimane innanzitutto la rabbia per la decisione di RCS di “vendere” questo evento popolare alla logica di guerra, violenza e apartheid del governo israeliano. Una scelta non solo economica (ricordo che per il Times of Israel l’intera operazione sarebbe costata ben 27 milioni di €), ma che col passare dei giorni si è dimostrata una scelta di campo: non una parola infatti si è alzata indignata dall’ambiente sulla continua strage che l’esercito israeliano ha fatto a Gaza negli stessi giorni in cui la corsa rosa entrava nel vivo. Non una parola che più imparzialmente lanciasse un’appello per una generica pace. Niente. Niente di niente. E meno male che doveva essere il “giro della pace”! Onestamente, cosa ha fatto dunque il Giro per la pace? In quelle terre martoriate i problemi restano, i massacri israeliani pure.
 
Resta poi l’amarezza per come è stato usato il personaggio di Bartali, da poco insignito dell’onorificienza di Giusto tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei dalle persecuzioni naziste durante la Seconda Guerra Mondiale. Ammesso che ciò che si racconta sia vero (QUI infatti lo storico Michele Sarfatti confuta la tesi secondo cui Bartali avrebbe trasportato nella canna della sua bicicletta i documenti falsi necessari per far fuggire gli ebrei), quel Bartali si schierò a fianco degli oppressi, questo Bartali è stato schierato dagli eredi a fianco degli oppressori. Rimangono quindi forti dubbi su cosa avrebbe scelto di fare il campione toscano.
 
Resta anche la solita non credibilità e inaffidabilità rispetto alle prestazioni sportive. Questo giro l’ha vinto Froome, un corridore sotto inchiesta per un presunto caso di doping, ma a cui la lentezza della giustizia sportiva ha concesso, non solo di partecipare ma anche di essere sicuro che i risultati ottenuti non saranno soggetti ad eventuale squalifica. Froome, è stato trovato con valori di salbutamolo (principio attivo del Ventolin, medicinale per la cura dell’asma di cui Froome si dice soggetto) nelle urine doppi rispetto al limite consentito. E si dirà che il poveretto è asmatico, che è stata un’anomalia dovuta a chissà quale causa, si troverà sempre e comunque una scusa. Curioso è che questi super atleti capaci di prestazioni sportive degne dei supereroi della Marvel, siano sempre asmatici o bisognosi di particolari medicinali che, guarda caso, hanno sempre una relazione con il miglioramento delle prestazioni atletiche. O che tutti mangino ste benedette bistecche piene zeppe di ormoni. Ho smesso di credere, anzi non ho mai creduto, a tutte queste panzane, non per una mia predispozione al dubbio o perché fan di San Tommaso, ma per aver vissuto l’ambiente per dieci lunghi anni. La ripetitività degli eventi e il susseguirsi di casi di doping mi induce a dire che due più due continua sempre a fare quattro. Poi, se avete bisogno di prove per quanto affermo, beh continuate a credere in questo sport, mettetevi comodi e aspettate il momento in cui Froome, o chissà chi altro, sarà più utile sacrificato per l’immagine falsa di un ciclismo pulito, piuttosto che per i suoi incredibili risultati. Un po’ come il texano di qualche anno fa...
 
Resta, infine, la consapevolezza che la campagna #cambiagiro è stata giusta. Le mobilitazioni di solidarietà hanno coinvolto non solo i movimenti che da sempre sostengono la lotta palestinese, ma anche chi crede in uno sport pulito, che non sia strumento politico del più forte sul più debole, che sappia dimostrarsi imparziale. Oggi il Giro ha sdoganato Israele, ma non è la prima volta che un grande evento si presta ad azioni di sport washing, e non sarà nemmeno l’ultima: ricordate le Olimpiadi del 1936 in terra nazista? O la finale di Coppa Davis da quel gran farabutto di Pinochet nel 1976? O ancora i Mondiali del 1978 nell’Argentina dei generali? Senza contare tutte quelle volte in cui i grandi eventi sportivi sono stati utilizzati per devastare territori con infrastrutture che vengono subito abbandonate e utili solo a generare giri di soldi impressionanti (vedi ad esempio le infrastrutture costruite per i Mondiali di calcio e le Olimpiadi in Brasile o quelle per i Mondiali di nuoto a Roma o ancora per le Olimpiadi invernali di Torino). Chi ama lo sport, son sicuro, saprà difenderlo e sarà pronto ogni volta a denunciare con forza questo meccanismo perverso di potere che nulla a che fare con lo sport ma che anzi lo infetta con dosi massicce di capitalismo, che sterilizza la passione e lo rende inguardabile e non credibile.