La notizia è passata quasi inosservata, i più probabilmente non l'hanno nemmeno vista, accecati dalle, per ora, notti magiche europee: l'inchiesta sulla morte di Marco Pantani è stata finalmente archiviata, nessun omicidio, nessun colpevole, nessun complotto.

Che pace sia dunque per il Pirata, per i genitori e per tutti i suoi sinceri ammiratori.

Ma più di tutto speriamo mettano il cuore in pace gli avvoltoi senza scrupoli che, sulle deboli spalle di un uomo, hanno vomitato addosso tutta la loro morbosa sete di scandalo e scoop.

Tali processi, lungi dal purificare l'immagine di un uomo, ne hanno sviscerato ogni singolo aspetto, spulciando tra i ricordi e la vita privata, addentrandosi nell'uomo alla ricerca di qualche indizio con cui modificare la realtà per proprio diletto o tornaconto.

È tempo di lasciare riposare in pace un uomo, un corridore figlio del suo tempo.

Quel tempo in cui il ciclismo ha deciso di abbandonare il romanticismo, la poesia, il senso di mettere alla prova i propri limiti. Quel tempo in cui il ciclismo ha fatto entrare i soldi, quelli veri, tanti, ed è coinciso con l'entrata della farmaceutica, quella vera, quella che altera non solo la prestazione sportiva, ma anche le caratteristiche fisiche delle persone che la assumono.

In quel tempo il ciclismo ha superato ogni limite atletico ma soprattutto morale: non si guardava più in faccia a nessuno, contava solo vincere, se vincevi venivi considerato eroe, se perdevi venivi deriso e disprezzato.

Pantani era dentro questo sistema maledetto, ha scelto di sporcarsi le mani, ha scelto di rischiare e di mettersi in gioco, come chi scrive ha scelto che non ne valeva la pena e ha preferito fumarsi uno spinello ogni tanto piuttosto di riempirsi le vene con porcherie chimiche. Pantani sapeva a che gioco stava giocando, sapeva i rischi sportivi di quello che stava facendo. Sapeva che oltre al doping c'era il giro di scommesse clandestine, sapeva che le corse si compravano e si vendevano.

Quello che non sapeva probabilmente era che non avrebbe avuto la forza di sopportare il gioco al massacro a cui è stato sottoposto una volta scaricato dal sistema. Marco non ha retto questo, il circo creato attorno alla sua figura e al suo mito, quello che quando tutto va bene ti fa sentire dio, ma quando la ruota gira ti fa diventare il bersaglio delle freccette.

E allora ammettiamolo, rendiamolo umano quest'uomo fortissimo in bicicletta e così debole, delicato nella vita. Accettiamo il fatto che avesse deciso di stare alle regole del gioco che prevedevano l'abuso sistematico di sostanze dopanti per  migliorare le prestazioni sportive. Come tutti in quei giorni così falsamente leggendari.

Accettiamo che il crollo del castello attorno a lui lo abbia portato a cercare conforto nella polverina bianca (peraltro molto in voga nell'ambiente, oltre che nella società tutta, in quegli anni). Accettiamo il fatto che era un uomo con le proprie debolezze e difficoltà.

Fare questo non significa disprezzarlo. Significa volergli bene renderlo un uomo vero e non una leggenda, finta, lontana dalla realtà.

Fare questo significa inoltre voler bene ad uno sport capace come pochi di emozionare.

Perchè, fino a quando non si ammetterà che in quel tempo tutto era lecito, tutti si facevano e soprattutto tutti sapevano e tacevano, non ci sarà redenzione, non ci sarà credibilità, nè per Marco nè per il ciclismo.

Da oggi abbiamo una possibilità in più:  è morta una leggenda, diamo spazio alla verità.

@ChrisPeverieri