Per capire cosa è successo il giorno della finale mondiale a Rio de Janeiro bisogna tornare a febbraio. El Pais il 22, in un articolo che ha provocato diverse reazioni in Brasile, raccontava che il sabato nella metropoli paulista c’era più polizia militare che manifestanti.

Questi ultimi erano qualche migliaio. Secondo i dati ufficiali circa due2mila, ma a leggere e guardare qua e là si capiva che dove- vano essere almeno il doppio. Comunque non numeri paragonabili anche solo a qualche mese prima.

In mezzo, va detto, c’era stata la vicenda dello sfortunato giornalista morto proprio durante una di queste manifestazioni, a Rio de Janeiro. Colpito da un potente petardo, durante una guerriglia, il cameraman Santiago Andrade perse la vita. Fu arrestato un diciassettenne e cominciarono atti di accusa pesanti nei confronti di tutti coloro che andavano in piazza. Quando si dice criminalizzare un movimento. A Rio vennero stati eseguiti fermi e i leader studenteschi della protesta risultano tutti indagati. Alcuni, addirittura, sono detenuti in carcere e altri ricercati. A tutt’oggi.

Questo episodio drammatico ha provocato l’inasprimento dei provvedimenti e un elenco di fermati (soprattutto tra i giovanissimi), in questi mesi che hanno preceduto la Coppa del Mondo. Il tutto con- dito da una campagna mediatica che ha criminalizzato i movimenti di piazza. Domenica 13 luglio, il giorno della finale Rio, il sole splendeva come mai i giorni precedenti. Ma nell’aria, oltre all’attesa per la finale, c’era anche la tipica atmosfera dei grandi eventi. Militari a ogni angolo, in ogni strada. Dai Ninja al Bope ai corpi speciali.

Oltre naturalmente la polizia di Rio. Elicotteri in cielo, fregate in mare, mezzi blindati lungo tutta Ipanema e Copacabana. La notte precedente, una massiccia operazione aveva portato all’arresto, preventivo, di attivisti e promotori delle manifestazioni. Così quando si è giunti a Praca Sans Pena l’aria era pesante. Tutte le vie attorno a questa piazza — di medie dimensioni se si pensa a Rio de Janeiro — erano chiuse da poliziotti Ninja o quelli del Bope. A cavallo, su motociclette e divisi in plo- toni da una dozzina di uomini si muovono compatti e veloci.

Un corteo ha provato a prendere la direzione Maracanà, che dista qualche chilometro. Ma non c’è stata una forzatura. Solo un pacifico virare del corteo che, ancor prima di provare a girare l’angolo, è stato aggredito con una brutalità disarmante. A fine giornata, si sono contati una quarantina di arrestati, chissà quanti feriti. E la determinazione e la fermezza delle azioni di repressione ha impressionato non poco. Non c’è mai stata una trattativa tra chi è in piazza e le forze di polizia mili- tare. Molte persone spaventate si sono rifugiate nella metropolitana, ma era una trappola. Sono rimasti lì, chiusi dentro e accerchiati. E la poca aria che si respirava era inquinata dai gas Cs. Anche Amnesty International si era pronunciata su queste modalità, proprio il giorno prima della manifestazione.

Le rivendicazioni in piazza sono cambiate, dopo le notizie di quanto accaduto la notte di sabato. Gli arresti hanno sicuramente spaventato molti, ma hanno anche evidenziato quanto sia difficile fare emergere voci di dissenso in Brasile. Anche oggi, nel 2014. Quando si assiste a pestaggi di ragazzi colpevoli solo di avere detto una parola in più o di giornalisti che stanno semplicemente facendo il loro lavoro, diventa tutto arduo. Molti operatori dell’informazione sono rimasti feriti. Alcuni fermati. Lunedì l’associazione dei giornalisti di Rio de Janeiro ha chiesto al governo di riferire sui fatti acca- duti, ovviamente non c’è stata risposta.

Si tende a minimizzare, ma in rete circolano diversi filmati che testimoniano la violenza dei pestaggi. Bisogna dire che la composizione del corteo — che di fatto non è mai partito, anche se autorizzato —

era eterogenea. Dai bambini agli adulti. Lo era altrettanto la folla, più di quarantamila persone, che sulla spiaggia di Leme si era data appuntamento al Fan Fest per assistere alla finale. Tantissimi argentini. La stragrande maggioranza. Cori e magliette di squadre che mai si vedono vicine di solito. Il solito tormentone su Papa Francesco e Maradona, birra a fiumi e tanta passione.

Il calcio in America Latina è vissuto con meno fanatismo del nostro. Nessun problema, a parte un malore e un paio di spettacolari interventi degli elicotteri di salvataggio per ripescare chi in mare che non riusciva a tornare a riva. Non si scherza con l’Oceano, neppure in una spiaggia di città.

Tanto tifo si diceva, il Cristo che dall’alto del Corcovado con un occhio teneva a bada cosa stesse accadendo al Maracanà e con un altro osservava la folla sulla spiaggia. Si stagliava nitido, come raramente succede. L’atmosfera era talmente magica che gli argentini hanno iniziato a crederci. Poi il goal di Mario Goetze. Il deflusso è stato amaro, ma molto tranquillo. Una cosa si notava: i bras- iliani hanno ricominciato a prendere colore. Sono stati, anche calcisticamente, giorni duri.

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