La stampa internazionale sta riportando in queste ultime ore le foto di noti atleti neri dello sport americano che indossano le magliette con la scritta “I can’t breathe”, l’ultimo sussulto dell’afroamericano Eric Garner prima di morire soffocato da una presa di un poliziotto di New York. Sullo sfondo anche le morti recenti, con evidenti responsabilità da parte della polizia statunitense, di Michael Brown, Tamir Rice, Akai Gurley ed altri ancora.

Derrick Rose, Lebron James, Kobe Bryant, e tanti altri giocatori di basket hanno indossato nel pre – partita la maglietta in solidarietà ad Eric Garner, o hanno espresso i loro messaggi di appoggio a questa campagna di protesta tramite social network; di certo la prima notizia di questo genere a fare rumore è stata quella del gesto dei 5 atleti della squadra di football americano Saint Louis Rams, che poco tempo fa prima di scendere in campo durante un match hanno alzato le mani nel tipico gesto della protesta di Ferguson dopo l’uccisione di Micheal Brown, ovvero lo hands up, don’t shoot”. Successivamente al gesto dei cinque “Rams”, anche i giocatori afroamericani di football Brandian Ross e Chris Baker hanno alzato le mani in campo mimando il gesto di protesta durante un match; nel mondo del football americano, la maglietta “i can’t breath" è stata indossata nei pre - partita anche dai giocatori Johnson Bademosi, Melvin Ingram, Reggie Brush. Nei vari articoli diffusi in questi giorni non sono mancati i riferimenti al gesto di Tommie Smith e Juan Carlos, con il loro pugno alzato in segno di protesta sul podio durante le olimpiadi di Messico 1968, e quello della figura di “Muhammad Ali”, che tra le sue prese di posizione, disertando la chiamata alle armi in piena guerra del Vietnam, disse: “non ho nulla contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato negro”. Se esiste un testo che in maniera dettagliata riprende alcune storie di uomini di colore che nei loro campi come arte, politica, scienza, hanno lottato contro razzismo, discriminazione e per la giustizia, questo è “Le mie stelle nere” di Lilian Thuram, ex calciatore di Parma e Juventus, campione del mondo con la nazionale francese, oggi presidente della sua omonima fondazione che si batte contro il razzismo. Nel libro di Thuram (intervistato anche da Sportallarovescia.it) vengono riportate alcune storie, tra le altre, di atleti che si sono battuti ed hanno raggiunto traguardi importanti, nonostante il loro colore della pelle costituisse un ostacolo notevole nel contesto sociale in cui vivevano, storie precedenti a quelle di Tommie Smith, Juan Carlos e Ali, che oggi vale la pena riprendere. Il primo atleta nero a farsi un nome nello sport è Marshall Walter Taylor,

 

nato nel 1878 negli Stati Uniti, nell’Indiana. Si appassiona alle due ruote fin da piccolo e si impone sugli avversari fin dalle prime corse amatoriali. Diventato professionista, batte tutti i record e deve fare i conti con i pregiudizi razziali che gli impongono il divieto di iscriversi ad alcune gare, di non poter gareggiare contro ciclisti bianchi che lo discriminano, di trovarsi contro spettatori che durante le corse gettano chiodi sulle sue ruote o acqua gelata in faccia. Viene minacciato di morte e citato sempre come secondo quando taglia il traguardo in gruppo, benché spesso primo. Esasperato dal razzismo negli Usa, benché consegua risultati agonistici eccellenti, si trasferirà in europa, dove, come scrive Thuram, sarà acclamato “quasi” come un uomo. Un’altra storia da ricordare è quella del pugile Mbarick Fall, detto “Battling Siki”.   

Nasce nel 1897 in Senegal, a Saint Louis. Ad otto anni viene rapito da una ballerina olandese, che lo porta con sè a Marsiglia, dove lo abbandonerà in seguito come un giocattolo di cui si ci è stancati. Diventa un pugile talmente forte da arrivare a batttersi contro l’acclamatissimo campione Georges Carpienter. Prima del match contro Carpienter, l’allenatore gli spiega che deve perdere, così guadagnerà un sacco di soldi. Nei primi round del match sta al gioco, poi l’umiliazione prende il sopravvento, e con pochi sforzi batterà il suo rivale. Ma i giudici della Federazione pugilistica gli sottraggono il titolo, e lui, esasperato dal razzismo, si trasferirà a New York, pensando di cambiare aria. Aveva fatto male i conti, la segregazione farà sentire tutto il suo peso su di lui. Lui risponde in maniera provocatoria: dicono che sia una scimmia, un bigamo? Ed allora si sposa con una bianca americana e cammina per la strada con una scimmia sulle spalle. Nel 1925, proprio un mattino di dicembre, viene freddato alla schiena da due colpi di pistola. Molti anni dopo Fernandez Mell, braccio destro di Che Guevara, sceglierà “Siki” come suo nome di battaglia. L’ultima storia da menzionare è sempre quella di un pugile, Alfonso Teofilo “Panama” Brown, detto “la libellula nera”

nato a Colon, nello stato di Panama, nel 1902. Vince molti incontri sul ring in Francia e negli Stati Uniti, è un vero fenomeno. Conquisa il titolo di campione del mondo nel 1929. Perde il titolo di campione del mondo nel giugno del 1935, durante un match truccato contro Baltazar Sangchilli; il suo stesso agente, pagato dall’avversario, ha versato un potente sedativo nel suo bicchiere. Riconquista il titolo nel 1938, proprio in un match epico contro il suo vecchio avversario Sangchilli. Il razzismo e l’omofobia (era gay) che ha vissuto sulla sua pelle pesano più di ogni altro colpo subito sul ring, e così morirà alcolizzato nel 1951.