La crisi sistemica del calcio italiano da tutti i punti di vista - di risultati, economica, culturale, progettuale, morale – oramai è un dato di fatto riconosciuto da tutto il mondo sportivo. I recenti e ciclici scandali sul calcio scommesse, le dichiarazioni di Belloli sul calcio femminile, la lenta agonia della Lega Pro con la sparizione di numerosi club e la riscrizione postuma dei verdetti sul campo da parte della giustizia sportiva sono solo le ultime manifestazioni di questa malattia.

E' invece sulle strategie di guarigione che il dibattito si apre. I vertici della Federcalcio promettono retoricamente inasprimento delle pene e maggiori controlli, mentre alcuni editoriali dei quotidiani sportivi cominciano a parlare della necessità di rinnovare una classe dirigente del pallone ormai inadeguata. Ci sono poi pezzi importanti del mondo del calcio che cominciano a prendere posizioni contro lo strapotere dei diritti televisivi, sostengono il bisogno di tornare ad investire sui vivai e soprattutto invocano un necessario cambiamento culturale all'interno del calcio. Stiamo parlando ad esempio di Damiano Tommasi e Renzo Ulivieri, che a un recente dibattito all'interno dei Mondiali Antirazzisti hanno fatto importanti dichiarazioni in tal senso.

Sicuramente bisogna partire da un netto cambiamento culturale, rimettendo al centro i valori fondanti di questo sport, rispetto alle esigenze televisive. Affermare questo non significa l'ennesimo grido contro il “calcio moderno” in difesa nostalgica del calcio di una volta (che tanto pulito non era nemmeno allora, tra doping, partite truccate e giochi di potere), ma significa guardare al futuro di questo sport.

Fino a quando le società calcistiche saranno delle “società per azioni” che come obiettivo hanno quello del profitto per statuto socetario (ricordiamo tutti le immagini della compagna pubblicitaria dell’ingresso in borsa della S.S. Lazio nel 1998, con i calciatori della squadra romana vestiti da azionisti inglesi d’antan) non usciremo mai veramente da questa crisi. Cambiare la struttura giuridica-legale verso una forma più “associazionistica” o “cooperativa sportiva” deve essere il primo passo del cambiamento culturale di questo sport.

Il modello tedesco delle “Eingetragener Verein” (in italiano “associazioni registrate”) e del “50+1” può essere un punto da cui per partire. In Germania i club sono storicamente nati come associazioni, dove tutti i soci partecipano alla vita del club ed eleggono i rappresentanti del consiglio d'amministrazione. Alla fine degli anni '90 la Federcalcio tedesca ha permesso di dare una struttura più commerciale attraverso la creazione di una società a responsabilità limitata per la sezione professionistica, a patto però che il 51% delle quote sia in mano ad associazioni di soci del club. In questo modo i supporters mantengono una funzione di controllo e di contributo attivo sulle scelte della squadra.

Questo modello è possibile perchè in Germania è radicata una cultura sportiva dell'associazionismo e quindi i tifosi non si sono mai sentiti come clienti, ma come parte attiva e decisiva. E' proprio per questo motivo per cui il cambiamento culturale tanto invocato nel calcio italiano non può riguardare solo i dirigenti, i calciatori, gli allenatori, ma deve coinvolgere prima di tutto i tifosi e le tifose, compreso il mondo ultras.

Quante volte si sono visti striscioni o adesivi “tifosi di questa maglia e non della società”? In Italia siamo abituati a separare la maglia e la società calcistica, come se fossero entità differenti. Siamo cresciuti con il mito dei presidenti-tifosi innamorati all'Anconetani o alla Rozzi. Si venera il presidente “quando ci porta in Europa”, si vuole un presidente “coi soldi”, oppure lo si contesta, a torto o a ragione, quando utilizza la squadra a fini di arricchimento personale. Non è più sufficiente gridare “vattene” al criminale o all'incompetente di turno, in attesa di un proprietario migliore.

Questa posizione ripete meccanismi di delega, di passività o, nei migliori casi, di indipendenza dalla società, ma sempre una relazione di esternalità. Un altro aspetto stucchevole di questa dimensione è anche quello del sempre maggiore riferimento nel linguaggio sportivo, che sia quello mediatico come quello del semplice tifoso da bar sport, alla situazione societaria delle squadre di calcio, quasi come se si dovesse fare il tifo per un presidente ed una società forte in maniera equivalente al tifo che si ha per i propri beniamini in campo, interessandosi ardentemente, da semplici spettatori, dei conti in banca dei presidenti di turno.

Quindi, quando un club è in vendita, non si può dibattere su quale sia la cordata migliore, facendo il tifo per quella più affidabile economicamente. Bisogna cominciare a considerare il club come un patrimonio collettivo, un bene comune che rappresenta una comunità. Fino a quando tutto il mondo dei tifosi, da quello davanti alla televisione all'ultras, non si metterà in discussione e non si assumerà un ruolo attivo e protagonista all'interno del club, il calcio italiano sarà sempre più schiavo dei diritti televisivi e i nostri club rischieranno prima o poi di scomparire sommersi dai debiti. Non solo il Parma, ma i numerosi fallimenti in Lega Pro ne sono l'esemplificazione.

Con l’appropriazione del club da parte dei tifosi, non si vuole certo intendere di aspirare a diventare dei nuovi manager, imprenditori, né a coltivare un senso proprietario, ma di trasformare e puntare sui valori propri del mondo delle tifoserie, e non solo quelle, come la cura per il bene comune e la collettività.

Anche in Italia da qualche anno si è cominciato a parlare di azionariato popolare come alternativa al calcio-business. In alcune città sono nate delle cooperative o delle associazioni di tifosi, che in alcuni casi sono riusciti ad acquisire delle quote del proprio club. Ci sono squadre nelle categorie dilettantistiche interamente gestite dai tifosi e per la prima volta le quote di un club di Lega Pro, l'Ancona, sono state cedute all'associazione locale di azionariato popolare (Sosteniamolancona).

Sono tutte esperienze importanti e da seguire, ma per salvare questo calcio c'è bisogno di una maggiore presa di consapevolezza dei tifosi, perchè se è vero che “football without fans is nothing”, è anche vero il contrario “Fans without football are nothing”.

 

Oggi sono due anni dalla morte di Carlo Petrini. Ex calciatore di Genoa, Milan, Torino, Roma e Bologna è stato coinvolto nel primo vero scandalo delle scommesse, insieme ad altri più o meno famosi di lui, negli anni ottanta. La maggior parte di loro, quelli che il sistema calcio decise di sacrificare, chiusero col calcio. La gustizia sportiva ci andava certo più pesante allora, ma sempre con quell'occhio di riguardo per chi conta di più.

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Se c'è una cosa che mai bisogna fare, è commentare ciò che non si è visto. E io, trovandomi lontano dall'Italia, non ho potuto seguire la trasmissione di domenica di Iacona, Presa Diretta. L'argomento il calcio malato, le scommesse, la corruzione.

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Farina: “Good Night and good Luck”

Essere il faro, essere il punto di riferimento per la civiltà intera. Questo si asseriva, neppure troppo velatamente, quando per andare a fare la guerra ci si diceva in missione per esportare la democrazia.

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Un anno fa, più o meno in questo periodo, presentavo, insieme a Davide Sannazzaro “Carlo Petrini – Una vita in due tempi” al Festival No Dal Molin di Vicenza. Ricordo che calcisticamente era un settembre meno caldo, rispetto a quello che stiamo vivendo. Diciamo che a livello di scandali eravamo fermi all'annosa polemica su Calciopoli e, a parte l'Atalanta, la situazione era nella media. Sto parlando del campionato di calcio. Quello di serie A italiano.

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