"Per diventare un buon allenatore non bisogna essere stati, per forza, dei campioni; un fantino non ha mai fatto il... cavallo". Questa era l'ironica e vigorosa risposta che Arrigo Sacchi dava a chi capziosamente insinuava che un calciatore mediocre non avrebbe mai potuto diventare un mago della panchina.

Arrigo, invece, viveva e si nutriva di pallone. 24 ore su 24 dedicate alla sua passione lo hanno fatto diventare uno dei più riconosciuti e vincenti allenatori di sempre, ma soprattutto uno dei più grandi innovatori in tema di pallone. Infatti, per molti nel mondo del calcio esiste un pre e un post Sacchi, così come noi occidentali siamo abituati a scandire gli anni in Avanti e Dopo Cristo.


Questo, però, ha avuto delle ritorsioni sul Profeta di Fusignano. Lo stress lo ha rapidamente logorato come la fiamma di un cerino tanto che, dopo l'epopea rossonera e il titolo di vicecampione del Mondo con la Nazionale, Arrigo si è ritirato. Ora, l'ormai ex tecnico passata il tempo a profetizzare il suo credo dalle pagine dei giornali e dagli schermi delle televisioni. La sua parola è legge, sono in pochi a dissentire dalle sue convinzioni. Per quanto riguarda i suoi concetti tattici c'è poco da obiettare, basta pensare che molti degli assiomi da lui portati all'esasperazione oggi sono ancora validi: fuorigioco sistematico, pressing, difesa alta e squadra corta, attaccare e difendere in undici, sono solo alcuni dei suoi mantra che oggi ormai sono la base di tutte le squadre professionistiche.
Per quanto riguarda il resto delle sue teorie, però, c'è molto su cui obiettare. In particolare sulla sua convinzione che un alto numero di stranieri utilizzati nelle giovanili e nelle rose delle prime squadre danneggino il calcio italiano andando a rovinare soprattutto i risultati della Nazionale. Più che una teoria, infatti, si tratta di una gaffe razzista; tanto più che al posto di stranieri Sacchi ha utilizzato il termine neri. Il tecnico romagnolo si è subito posto sulla difensiva affermando di non essere un razzista e che il suo curriculum parli per lui. Il problema è che non serve essere necessariamente razzisti per pronunciare una frase razzista. Infatti, Arrigo Sacchi più che razzista è ignorante. Ignorante poiché ignora che nel calcio odierno, come in qualsiasi altro sport, il "problema" della razza è una questione superata. Prova ne è la Germania campione del Mondo ed esportatrice di talenti, che è ormai una nazionale orgogliosamente multietnica: Klose, Podoloski, Boateng, Özil, Mustafi, Khedira sono infatti solo alcuni degli esempi più lampanti. Stessa cosa per la Francia del biennio d'oro '98-2000 con i vari Zidane, Henry, Thuram, Karembeu, Lama, Trezeguet, Desailly, Vieira e Diomède. Per non parlare del fatto che l'ultima squadra italiana a vincere la Champions League, ossia l'Inter, schierava spesso e volentieri undici giocatori stranieri. In Inghilterra questa cosa è una prassi: Arsenal, Chelsea, Manchester United, Manchester City, Liverpool, Tottenham, scendono sempre in campo con una netta maggioranza di giocatori non inglesi. Stesso ragionamento di cui si avvalgono top club come: PSG, Real Madrid e Bayern Monaco. Insomma, bisogna capire una volta per tutte anche nel nostro Paese che deve giocare chi è più bravo senza guardare la nazionalità di provenienza o il colore della pelle.


Per capire quanto la questione della razza sia una grandissima baggianata corre in aiuto la storia dei Texas Western Miners allenati da Doanld Lee "Don" Haskins, che vinsero il titolo NCAA nel 1966 battendo in finale i favoriti Kentucky Wildcats (da cui è stato trattato anche un bellissimo film, Glory Road).
La vicenda ha inizio nel 1961, in piena lotta civile per i diritti degli afroamericani, quando coach Haskins prende in mano una squadra allo sbando nel profondo sud del paese, esattamente ad El Paso in Texas. Dopo qualche hanno con poche fortune, nel 1965, qualche mese dopo le famose marce da Selma a Montgomery, quando ancora negli stati del Sud i soprusi non sono finiti, Haskins capisce definitivamente che con i membri della sua rosa, rigorosamente tutti bianchi, non andrà molto lontano. Lui, vincente di natura, questo non può più accettarlo. Così decide di rimpinguare le file della squadra andando a pescare in giro per gli USA chi può fargli comodo. Le caratteristiche devono essere queste: deve saper giocare e deve essere affamato di vittorie, il colore della pelle non conta. Così all'inizio del campionato il coach si ritrova ad allenare una squadra formata da sette elementi di colore e cinque elementi bianchi. La durezza e l'intransigenza di Don Haskins (chiamato per questo "The Bear", l'orso) compattano il team, anche perché per l'allenatore è di fondamentale importanza l'eguaglianza di tutti gli elementi. Se un bianco sbaglia paga, se un nero sbaglia paga.
Ovviamente la notizia di questa squadra "mista" fa velocemente il giro degli Stati Uniti e ben presto si sollevano grida di biasimo, ma soprattutto risa di scherno e stilettate supponenti. I Miners non andranno lontano, ci sono superpotenze del calibro di Kansas, Ohio State e Kentucky troppo forti da battere, e poi tutti quei giocatori neri assieme non possono creare una squadra vincente. Ad Haskins vengono ripetute continuamente le solite regole, regole non scritte ma che fanno parte di tutto l'ambiente, specialmente nel Sud: degli atleti di colore ne gioca uno nelle partite casalinghe, due in trasferta e tre se si sta perdendo, ma farne giocare cinque assieme mai. Questo perché sono ritenuti indisciplinati, sordi davanti ai diktat degli allenatori e incapaci di reggere la pressione quando il momento risulta decisivo per le sorti dell'incontro. Serve almeno un bianco, uno con il cervello, che sia il prolungamento del coach sul parquet.


Il team di El Paso, però, ben presto fa ricredere tutti vincendo 23 partite su 24 della regular season e approdando così al Torneo NCAA. Un ruolino di marcia impressionante soprattutto se si pensa all'ambiente spesso ostile in cui giocano i ragazzi di Haskins. Solo nelle partite casalinghe trovano un minimo di serenità e calore. In trasferta gli insulti sono all'ordine del giorno e spesso si arriva alle minacce fisiche, Nevil Shed viene picchiato in un bagno pubblico in Arizona, o alle intimidazioni, come quando la squadra è costretta a lasciare di soppiatto il proprio albergo poiché le loro camere sono state messe a soqquadro e imbrattate con il sangue. La loro battaglia sportiva e civile però non si può arrestare. Ai quarti gli Oklahoma City vengono letteralmente spazzati via, poi è la volta dei Cincinnati Bearcats, schiantati all'overtime con il punteggio di 78 a 76, ed infine della super potenza Kansas, battuta dopo un doppio supplementare di un solo punto (81-80). I Miners approdano quindi alla Final Four per la prima volta nella loro storia. Ora più che mai sono decisi e consapevoli di poter arrivare al titolo. In semifinale gli Utah Utes non possono fare altro che arrendersi alla loro superiorità e così il 19 marzo 1966, dopo un cammino durato poco più di quattro mesi, Don Haskins e i suoi ragazzi possono scendere sul parquet per giocare la tanto agognata finale. Ad attenderli ci sono i Kentucky Wildcats allenati dal santone Adolph Rupp, un coach che ha vinto tanto, viene definito un profeta per il gioco quasi divino imposto alle proprie squadre e che soprattutto e convinto della superiorità dei giocatori bianchi nei confronti di quelli di colore. Ed è qui che si consuma la storia. Il coach dei Miners, con una decisone presa la notte della vigilia e condivisa dall'intero gruppo, schiera un quintetto di soli giocatori neri; gli altri due giocatori di colore sono le uniche sostituzioni, i cinque bianchi restano a guardare. Bobby Joe Hill, David Lattin, Orsten Artis, Willie Worsley, Willie Cager, Nevil Shed e Harry Flournoy sono chiamati a riscrivere il corso degli eventi una volta per tutte. Non possono sbagliare, altrimenti tutto sarà stato vano e si tornerà allo status quo del dominio bianco. I ragazzi però non sbagliano, anzi, dominano e annichiliscono i più quotati avversari davanti ai quindicimila increduli spettatori del Cole Fields House di Collegge Park nel Maryland e alle migliaia di persone incollate alla tv in tutto il Paese. 72 a 65 è il risultato finale. La storia è stata così rivoltata e assieme a lei anni di stupide teorie razziali.
L'intera squadra dei Texas Western Miners, e con essa Don Haskins, per la bravura e la portata sociale di quella vittoria, nel 2007 è stata ammessa nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame. Tale riconoscimento, uno dei massimi a livello internazionale, vuole onorare coloro i quali hanno dato un contributo fondamentale al miglioramento e all'affermazione della pallacanestro.
E per capire l'importanza di quella vittoria basta leggere un semplice dato: i giocatori afroamericani in NBA sono passati dal 5% di quegli anni ai quasi tre quarti del roster attuale. Sintomo che il colore della pelle non deve essere una discriminante alla stregua dell'abilità. Come ha affermato coach Don Haskins a chi anni dopo gli chiedeva il perché di quella scelta rivoluzionaria nella finale del '66: «Io non ho fatto niente di strano: quel giorno misi in campo semplicemente i migliori giocatori della squadra. E risultò che erano tutti neri».
Insomma a Sacchi andrebbe raccontata questa storia e soprattutto andrebbe ricordato che per essere degli innovatori non serve per forza essere stati allenatori leggendari, come è vero che un fantino non ha mai fatto il cavallo. Questo Arrigo dovrebbe saperlo bene.