La campagna anti-omofobia promossa da Paddy Power e dalla Fondazione Cannavò, ha sicuramente un pregio: ha fatto emergere il tema dell’omofobia nello sport. Il Presidente della FIGC, Abete, ha così spiegato l’adesione della Federcalcio all’iniziativa: “Attraverso questa scelta vogliamo ribadire la sensibilità e l'impegno civile del calcio italiano, in particolare di atleti e tecnici che indossano la maglia Azzurra, attraverso atti concreti in grado di testimoniare anche i valori sociali che lo sport deve rappresentare e nei quali crediamo fortemente».

Da queste parole però non è chiaro se per “atti concreti” si debba intendere l’utilizzo in campo di “lacci arcobaleno”. Un po’ poco, a dire il vero. Resta anche qualche perplessità sul perché l’iniziativa non sia partita dalla Federazione o dalla Lega calcio, ma da un’agenzia di scommesse che certamente fa il suo marketing, ma con diversi limiti. Ad esempio, sarà assai difficile che alla campagna possano partecipare giocatori della Sampdoria e del Genoa, dato che entrambe le squadre hanno come sponsor un’agenzia di scommesse concorrente della Paddy Power.

Ma la domanda principale resta: cosa fanno le istituzioni italiane per combattere l’omofobia nello sport? Di fatto, poco o nulla. Ne è una riprova la mancata applicazione di quella parte della Raccomandazione CM/Rec(2005)s del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa - adottata nel “lontano” 31 marzo 2010 - che aveva individuato proprio nello sport uno degli ambiti dove i vari stati membri avrebbero dovuto impegnarsi per contrastare l’omofobia (e non solo). Riportiamo i tre punti della Raccomandazione riguardanti lo sport perché estremamente chiari su cosa sarebbe opportuno fare. Il primo punto sancisce un principio: “L’omofobia, la transfobia e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere sono inaccettabili nello sport, come il razzismo e altre forme di discriminazione e dovrebbero essere contrastate”. Il secondo punto è già più operativo: “Le attività sportive e i relativi impianti dovrebbero essere aperti a tutti, senza discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere; in particolare, dovrebbero essere adottate misure efficaci volte a prevenire, combattere e punire gli insulti discriminatori che facciano riferimento all’orientamento sessuale o all’identità di genere in occasione o nell’ambito di eventi sportivi”.

E’ questa una delle richieste che la Campagna NoDiSex ha posto – e continuerà a porre - alle istituzioni sportive già dal mese di gennaio, chiedendo l’inserimento di misure di contrasto nei vari codici di giustizia sportiva e di comportamento. Ancor più operativo è il terzo punto della Raccomandazione: “Gli Stati membri dovrebbero incoraggiare il dialogo con le associazioni sportive e i fan club e fornire loro sostegno per stimolarli a sviluppare attività di sensibilizzazione per la prevenzione della discriminazione nei confronti di persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali nello sport, e a condannare qualsiasi manifestazione di intolleranza nei loro confronti”. Il dialogo e il sostegno ad oggi sono stati realizzati soltanto da soggetti privati, non certo dallo Stato, che su queste tematiche è assente e che continua a ritenere lo sport un ambito da far gestire ai privati o a qualche “carrozzone”. Ciò non toglie che, visti i tempi, presto ci possa essere un sottosegretario con delega allo sport che si farà fotografare con i lacci arcobaleno, convinto che sia questo il modo migliore per combattere l’omofobia.