Solo in due mondiali (ai quali molto probabilmente si aggiungerà quello attuale) la finale non è stata la partita regina della manifestazione, quella simbolo per tutti gli addetti i lavori e i tifosi. Il primo è stato il Mondiale di Messico ’70, dove il match che tutti ricordano è la partita del secolo. La semifinale Italia Germania 4-3 che ha lasciato incollati ai televisori milioni di tifosi italiani e che è ritenuta unanimemente come una delle più dolci notti tricolori. L’altra rassegna che non ha visto l’ultimo atto come momento più celebre è stato il secondo Mondiale messicano, quello del 1986 (deve esserci, quindi, qualcosa di veramente magico e misterioso nella terra dei sombreri). Il match a cui tutti la nostra mente ritorna, se pensiamo a quella edizione, infatti, è il quarto di finale tra Argentina e Inghilterra

 

A differenza delle prima, però, quella, oltre ad essere una “semplice” partita di calcio, è stata anche uno scontro politico. Ma per capire meglio tutta la vicenda bisogna riavvolgere il nastro è partire dall’inizio.

1820, oceano Atlantico meridionale: su di un territorio formato da tre arcipelaghi –le isole Malvinas, la Georgia del Sud e le isole Sandwich meridionali- sbarcano i militari argentini, che prendono il potere su di esso. Pochi anni dopo, esattamente nel 1833, è la volta degli inglesi, che conquistano tutti i territori espellendo i precedenti colonizzatori e destituendo il governatore designato José Maria Pinedo. Il  nome viene mutuato in Isole Falkland e per più di cento anni i britannici rimangono i signori incontrastati di questi ammassi di rocce che ospitano poche decine di persone. 

La situazione torna a farsi tesa nel ventesimo secolo. Il 19 marzo 1982 una spedizione militare argentina, formata da cinquanta soldati in borghese inviati dal regime al governo, cerca di riprendere possesso delle isole. L’avamposto inglese è colto di sorpresa, ma cerca in ogni modo di fermarli. Il 2 aprile arrivano altri seicento militari argentini che sbarcano con mezzi anfibi sull’isola e risolvono la questione cacciando i soldati nemici dal luogo. Ma perché l’Argentina ha questa enorme smania di conquistare quel insignificante territorio? Il motivo è presto detto. Il regime militare (guidato in quel momento da Leopoldo Galtieri), instauratosi a Buenos Aires pochi anni prima, si trova in un momento assai critico: la repressione, unita alla crisi economica, ha creato una pesante nube di malcontento che adesso si sta abbattendo con tutta la sua forza sul comandante e i suoi collaboratori. Galtieri è convinto che attraverso lo spirito nazionalista potrà stemperare il problema aumentando il consenso. Immagina, infatti, che la guerra sarà rapida e indolore. Pochi soldati moriranno e lui potrà essere definito come l’uomo che ha riunificato il territorio nazionale (gli argentini, difatti, ritengono le isole Malvinas facenti parte della loro patria e gli inglesi loro usurpatori). Inoltre, il comandante pensa che al Regno Unito non interessino molto quei territori e che gli U.S.A. non intervengano in favore di essi dato che il suo regime è un baluardo dell’anticomunismo in America Latina.

L’ONU il giorno seguente, con la risoluzione 502 approvata a maggioranza, chiede però l’immediato ritiro dell’Argentina dall’arcipelago. Margaret Thatcher, intanto, opta per l’immediato attacco militare. Gli inglesi, supportati in diverso modo da ONU, NATO, CEE e Commonwealth, inviano nella zona aerei, sottomarini nucleari, navi da guerra e un ingente numero di truppe che riconquistano nel giro di poche settimane tutto il territorio. L’esercito argentino, rimasto solo a causa della politica interna ed estera adottata dal regime, è infatti impreparato ad uno scontro di tale portata. I militari sudamericani sono per lo più giovani coscritti, inesperti e equipaggiati in modo inadatto. Galtieri non aveva mai pensato di dover affrontare un conflitto di tali proporzioni per quei territori. In Argentina la sconfitta contribuisce in maniera significativa alla crisi, e poi alla cacciata, del regime militare. Infatti, come scritto sopra, il comandante aveva promesso un attacco rapido e indolore. Ma il suo piano è subito fallito miseramente di fronte alla potenza inglese. Il paese si trova così a dover piangere la morte di tanti giovani soldati, mandati inutilmente a riconquistare un terreno che ha pochissimo valore. 

L’occasione per la vendetta arriva quattro anni più tardi. Il terreno dello scontro è, però, un rettangolo verde e gli uomini chiamati all’ordine sono capaci di sganciare bombe solo con i piedi. I Mondiali, come citato sopra, sono quelli di Messico ’86. L’Argentina cerca un nuovo successo per cancellare il terribile passato militare. Il capitano e trascinatore dell’albiceleste è il calciatore in quel momento  più forte al mondo (e lo è rimasto tutt’ora): Diego Armando Maradona

Diego fin da bambino ha avuto solo due sogni: giocare un Mondiale e vincerlo. Per farlo deve però scontrarsi con una realtà abbastanza avvilente quanto veritiera: l’Argentina non è al livello delle altre compagini candidate al titolo, tra cui c’è l’Inghilterra. Il popolo argentino però chiede a gran voce una vittoria che rivendichi il massacro subito nella primavera di quattro anni prima. In spogliatoio, prima della partita, Maradona, con le sue grandi doti da condottiero, arringa i suoi compagni a combattere non solo per se stessi, ma per l’intera nazione: “por todo el pueblo”. Devono assolutamente vendicare quei giovani figli della patria uccisi.

Il primo tempo termina a reti inviolate. Nella seconda frazione il genio e la scaltrezza del Pibe fuoriescono in modo eccezionale. Per l’Inghilterra non c’è scampo. Come dirà anni dopo Arrigo Sacchi:« Giocare contro Maradona era come giocare contro il tempo; tu sapevi di avere una spada di Damocle sulla testa. Sapevi che dovevi fare gol velocemente altrimenti lo avrebbe fatto lui o lo avrebbe fatto fare». E anche in quel giorno avviene ciò. Minuto  6 della ripresa: sulla trequarti Diego sfonda, chiede un triangolo con un compagno, ma un difensore interviene e sporca il passaggio facendolo impennare all’interno dell’area di rigore. Shilton esce con le braccia protese, ma su quel pallone si lancia anche il Pibe. È una sfida impari, ma el Diez, con un colpo furtivo e malandrino della mano, anticipa il portiere e spedisce la palla in rete. Diego si volta, sa di averla toccata con una parte proibita, ne è cosciente, ma quando vede l’arbitro indicare il centro del campo comincia ad esultare. Come il protagonista di un western leoniano, Maradona è un antieroe, una figura non pienamente positiva, sfrutta tutto ciò che gli è attorno per trarne vantaggio per se stesso. È il deus ex machina della situazione, ma non vuol dire che i suoi metodi siano pienamente condivisibili. Quel pugno della mano sinistra che ha colpito il pallone, però, assume anche il significato della lotta marxista e popolare contro i regimi dittatoriali militari dell’America Latina (aiutati neanche troppo velatamente dal governo statunitense). È il pugno levato dal popolo argentino contro i rivali inglesi. Il tabellino ora dice che l’Argentina è in vantaggio per 1-0.

Maradona quella guasconata la chiamerà la mano de dios, un tocco che non ha effettuato lui ma Dio in persona poiché doveva punire gli inglesi rei di aver ucciso per un futile motivo. Ma Diego sa che deve dimostrare di non essere solo il calciatore capace di fare quelle furbate. Ne va del suo orgoglio, vincere così a lui piace assai poco. 

Ed è così che tre minuti dopo si inventa il gol del secolo, quello che tutti hanno ancora negli occhi quando si parla di lui. L’azione è come un fulmineo e inteso passo di tango, un’improvvisazione elegante e passionale. I protagonisti sono Diego, che conduce, e la sua signora che lo segue incollata al suo piede sinistro, la palla. Il Pibe riceve la sua dama nella propria metà campo, con una veronica si libera dei primi due avversari, e incomincia la sua inesorabile danza. Gli avversari sono degli scocciatori che tentano invano di offuscare i sui  passi da tanguero su quella pista da ballo improvvisata. Diego ne supera quattro, aggira Shilton, e con un casquè (forzato dall’intervento disperato di un difensore inglese) adagia la sua signora accompagnatrice in rete. 2-0 per i sudamericani. Il Pibe con il pugno alzato urla al mondo la sua gioia e il suo orgoglio argentino. Gli inglesi accorceranno le distanze, ma non riusciranno a completare la rimonta. 

El Diez ha compiuto la sua missione, ha vendicato i suoi connazionali, adesso può concentrarsi sul secondo dei suoi sogni. Come è prevedibile riuscirà nel suo intento, perché per lui esisteva solo un obiettivo da perseguire. Un obiettivo ben espresso dall’affermazione storica del guerrigliero che porta tatuato sul suo braccio, compagno di rivoluzione del suo amico Fidel Castro:“Hasta la victoria siempre”. E lui, Diego Armando Maradona, era destinato a vincere perché non è stato un calciatore, è stato il calciatore, non è stato un numero 10,  è stato il numero 10. 

Il Pibe è stato per il pallone quello che Che Guevara ha rappresentato per la guerra. Diego si è sempre trovato a disagio quando doveva combattere in un esercito regolare, in una squadra forte e allineata con il sistema, come ad esempio il Barcellona. È stato infinito, invece, quando ha potuto farsi carico di una squadra di medio livello opposta ai poteri forti, come il Napoli, che andava a fare guerriglia contro tutto e tutti. Anche in nazionale valeva il discorso fatto con la compagine partenopea. La squadra in se non era nulla di eccezionale, anzi, a volte risultava più debole delle rivali affrontate. Il gap allora lo colmava lui, con la sua abilità palla al piede e il suo carisma da condottiero, portando i compagni a dare tutto per la causa di cui era il paladino.