Quando, durante le Olimpiadi invernali del 2014 svoltesi a Sochi, in Russia, si è tornati a collegare le parole sport e boicottaggio, a causa delle politiche estere e interne russe mal digerite dal resto del mondo occidentale, è tornata in auge anche la consueta diatriba tra chi pensasse che gli atleti dovessero dare un significato chiaro e forte contro la politica di Mosca astenendosi dal partecipare alla competizione e chi, invece, ritenesse che i partecipanti dovessero pensare a gareggiare e basta. 

 

Nonostante le smentite di rito, la storia delle manifestazioni sportive è sempre stata influenzata da quella ufficiale tanto che la parola boicottaggio ha fatto spesso e volentieri capolino tra le pieghe della prima. 

Il problema, però, sorge spontaneo: come devono comportarsi gli atleti in questo caso? La voglia di partecipare ad un evento caratterizzante, conquistato con fatica e sudore, e che potrebbe portare alla gloria eterna fa da contrasto con la coscienza che insinua il tarlo del dovere morale. Che cosa fare in questi casi? A volte a sollevare lo sportivo da tale scelta ci pensa la nazione stessa obbligando i propri partecipanti al blocco coatto (ad esempio gli USA alle Olimpiadi del 1980), ma in altre occasioni sono i prim’attori a dover decidere sobbarcandosi il peso della propria scelta (in questo caso si ricorda l’abbandono, proprio a Sochi, della sciatrice ucraina Bogdana Matsotska). Le proprie convinzioni politiche aiutano moltissimo gli atleti a far pendere l’ago della bilancia dall’una o dall’altra parte; ma se la morale si scontra con il fatto di appartenere al Paese che commette le nefandezze?

Tre casi emblematici riguardanti queste fatidiche scelte avvennero durante il Mondiale di calcio del 1978 giocato in Argentina, la manifestazione iridata più controversa della storia calcistica (almeno fino ad oggi). 

La genesi di questa storia ha inizio negli anni ’50 quando la FIFA, su pressione dell’argentino Antonio Rotili (in quell’occasione rappresentante dell’intero blocco sudamericano), innovò la turnazione delle sedi mondiali decidendo che l’assegnazione sarebbe andata ad edizioni alterne ad una nazione europea e ad una sudamericana.  L’Argentina, guidata in quel tempo da Juan Domingo Peron, capì al volo i vantaggi derivanti dall’ospitare una tale manifestazione nel proprio Paese e propose la propria candidatura per l’avvenimento del 1962 (nonostante il generale non fosse un grande appassionato di calcio). La vittoria, però, andò al Cile e così la terra del tango si trovò a dover competere con il Messico per l’edizione del 1970. Per evitare nuove scottature derivanti da un’altra cocente delusione, la commissione argentina si accordò con i messicani che la perdente di quell’assegnazione sarebbe diventata automaticamente la candidata sudamericana per i Mondiali del 1978. Lo scrutinio andò appannaggio dei messicani, ma in quella stessa circostanza Stanley Rous, presidente della FIFA, proclamò l’Argentina come ospitante dell’undicesima edizione dei Mondiali.

Nel Paese, però, cominciavano ad affacciarsi le prime nubi del temporale che di lì a poco si sarebbe abbattuto su tutta la nazione spazzando via ogni parvenza democratica e gettando l’intera popolazione in una delle fasi più drammatiche della propria storia. Il generale Peron fu destituito ed esiliato nel 1955; la sua carica fu occupata per poco più di un decennio da un susseguirsi di brevi governi per poi tornare in suo possesso nell’ottobre del 1973. Peron non poté però assistere alla realizzazione del suo sogno poiché un attacco di cuore se lo portò via nel luglio dell’anno successivo. 

Al potere salì così sua moglie Isabelita, ma la sua sorte era già fatalmente segnata. Infatti, all’alba del 26 marzo 1976 fu anch’ella destituita da un golpe militare guidato da Jorge Rafael Videla che diede vita immediatamente al Processo di riorganizzazione nazionale. La notizia del colpo di stato scosse il Mondo, ma il peggio per gli oppositori doveva ancora arrivare. Il regime agì con efferatezza, durezza e cinismo spazzando via tutto ciò che le era contrario. Cominciò lo struggente dramma dei desaparecidos: migliaia di dissidenti, per lo più giovani, furono segretamente strappati all’affetto dei loro cari per non fare più ritorno.

Videla e i suoi avevano però un ulteriore problema a cui pensare: cosa fare con i Mondiali imminenti. Le spese per la realizzazione di tutte le infrastrutture necessarie erano elevatissime e l’equilibrio fiscale avrebbe senza dubbio subito un duro colpo, ma a livello politico non ospitare la manifestazione sarebbe stato un suicidio. Così la dittatura argentina agì come si erano comportate negli anni antecedenti le dittature fasciste europee: utilizzò lo sport (in questo caso il calcio) come meccanismo di propaganda politica e di coesione sociale attorno al regime. L’obiettivo quindi diventò uno e uno solo: vincere quei Mondiali casalinghi per allontanare i pensieri del popolo dai crudeli crimini perpetrati.

Incredibilmente, nonostante le terribili notizie che giungevano dal Sud America, la FIFA, per sbandierare la propria autonomia e neutralità rispetto alla politica, supportò completamente il programma redatto dai dirigenti argentini. Le nazioni partecipanti, seppur più restie rispetto all’organizzazione calcistica mondiale, decisero di partecipare puntando anch’esse sul fatto che lo sport fosse esulato dal contesto politico. Ovviamente con loro si mosse la quasi totalità dei calciatori.

Unico a sbandierare apertamente la propria disapprovazione fu Paul Breitner, terzino della Germania Ovest, che decise di non mettere piede in terra argentina. La sua assenza fece un certo rumore poiché Breitner era stato uno degli eroi dei Mondiali precedenti vinti proprio dalla compagine tedesca. Suo, infatti, era stato il gol del momentaneo pareggio nella finale contro l’Olanda (a cui sarebbe poi succeduto il decisivo gol di Müller); ma il suo soprannome “il maosita” non lasciava dubbi riguardo al suo credo politico (e quindi sulla sua decisione). Oltre alla militanza, a farlo diventare un idolo della sinistra radicale dell’epoca, contribuivano la sua folta capigliatura e la barba incolta che gli valsero l’ulteriore nomignolo: “Der Afro”. Breitner fu quindi sia un idolo sociale sia sportivo di quegli anni ed ebbe l’onore di indossare nel corso della sua gloriosa carriera le mitiche divise di Bayern Monaco e Real Madrid (l’esilio spagnolo fu una conseguenza del suo cattivo rapporto con alcuni membri dello spogliatoio bavarese che lo consideravano troppo anticonformista, fra tutti Franz Beckenbauer). Per capire l’importanza ricoperta dal “maoista” nello scacchiere teutonico (e non solo) degli anni ‘70 e ‘80 basta comunque ricordare un dato: passata l’edizione del 1978, verrà nuovamente chiamato in causa e quattro anni dopo tornerà a disputare una finale, questa volta contro l’Italia di Bearzot e Paolo Rossi, e a segnare. L’impresa di timbrare il tabellino dei marcatori in due finali differenti del massimo torneo iridato calcistico è riuscita solo a lui e a Pelé, Vavà e Zidane; nomi che hanno fatto la storia del calcio.

Ma torniamo a quella soleggiata estate del 1978 per raccontare le altre due storie, forse quelle più significative.

Mentre le cariche istituzionali subirono un cambiamento energico, Cesar Luis Menotti,detto “El Flaco”, fu confermato alla guida dell’albiceleste. Pur non essendo un seguace del regime, il tecnico era, infatti, molto quotato tra i giornalisti e così Videla acconsentì a lasciarlo al suo posto. Il primo caso spinoso da risolvere per il C.T. riguardò la chiamata di un gioiellino che stava sbocciando in tutta la sua forza: Diego Armando Maradona. Diego non era ancora “El Diez” per eccellenza, aveva infatti diciotto anni, ma aveva già dato sfoggio delle sue enormi qualità. Menotti però era titubante; sapeva che se si fosse affidato a lui e avesse fallito l’obiettivo prestabilito (la vittoria finale) sarebbe stato nei guai. Così decise, ricevendo una montagna di critiche, di scartare il talento più fulgido di tutto il panorama argentino. I guai, purtroppo per lui, erano però appena cominciati. JorgeEl LoboCarrascosa, il capitano e il leader della squadra, decise di ritirarsi dalla nazionale perché avverso al regime. Carrascosa si era costruito una vita tra Banfield, Rosario Central e, soprattutto, Huracán, dove aveva conosciuto Menotti. Il legame tra i due era quindi simbiotico ma “El Lobo”  fu impassibile nella sua decisione di voltare le spalle a quei generali che stavano commettendo quelle nefandezze. Non importa se l’Argentina avesse trionfato, lui in quell’insanguinata edizione non avrebbe giocato. Per il tecnico fu un vero fulmine a ciel sereno la sua astensione, per di più se si aggiunge che la fascia di capitano fu posta sul braccio di uno dei più fervidi e convinti seguaci di Videla: Daniel Alberto Passerella.

El Flaco”, costretto a rinunciare al suo prolungamento sul campo da gioco, decise di compiere una scelta radicale e ben precisa nelle convocazioni: su ventidue membri della rosa ventuno giocavano in Argentina (così da rendere la squadra ancora più “vicina” al popolo). Solo il nuovo leader, il numero 10, calcava terreni stranieri, precisamente quelli spagnoli, il suo nome era Mario Kempes: il giocatore argentino più forte del momento. 

Partita con i favori del pronostico, l’albiceleste passò di slancio il primo turno battendo Ungheria e Francia e arrendendosi solo all’incredibile Italia targata Rossi-Bettega. L’unico problema era l’astinenza in zona gol proprio di Kempes. Menotti allora, degno del più potente sciamano, lo obbligò a compiere un rito scaramantico: il taglio dei baffi. Durante il secondo turno, che allora prevedeva due gironi da quattro che avrebbero designato le due finaliste, Mario incredibilmente si sbloccò. I padroni di casa sconfissero la Polonia e pareggiarono con il Brasile. I carioca, però, avevano la differenza reti dalla loro; se avessero vinto l’ultima partita contro il Perù per l’Argentina sarebbe diventato quasi impossibile accedere all’ultimo atto. Così avvenne: i brasiliani annichilirono i polacchi con un perentorio 3-1. Per qualificarsi gli argentini avevano bisogno di realizzare almeno quattro reti. Il match che ebbe inizio il 21 giugno 1978 segnerà una delle pagine più buie e intricate della storia dei Mondiali. Alla nazionale peruviana fu “rallegrata” la notte della vigilia con urla e schiamazzi da parte dei tifosi argentini e, come se non bastasse, il tragitto dal loro albergo al campo da gioco, distante dieci minuti di macchina, durò la bellezza di due ore a causa dei continui errori di navigazione dell’autista terminando la propria corsa esattamente sotto la curva del tifo più caldo argentino che non lesinò insulti e minacce. Il bello, o il brutto, doveva però ancora arrivare. In porta per la Blanquirroja giocava Ramon Quiroga, argentino naturalizzato peruviano da circa un anno. La sua prestazione fu ai limiti tra lo scandaloso e il ridicolo e per decenni i dubbi su di lui e su una sua combine furono forti e insistenti. Con il 6-0 maturato al termine della contesa, l’Argentina era di nuovo finalista della Coppa del Mondo dopo quarantotto anni. Ad attenderla c’era la fortissima Olanda finalista dell’edizione del 1974

Gli olandesi si fecero pericolosi per tutta la prima frazione, ma al 38° Kempes, ricevuta palla al limite dell’area, batté sullo scatto il proprio marcatore e in spaccata superò il portiere in uscita: 1-0 Argentina. I padroni di casa a questo punto sembravano poter resistere fino al triplice fischio quando all’82° arrivò la doccia gelata: Haan scorse libero sulla fascia destra l’accorrente René Van der Kerkhof e gli fece pervenire la sfera, il numero 10 degli orange crossò di prima al centro per l’inserimento di Nanninga che con un terzo tempo perentorio insaccò l’1-1. I supplementari incombevano e sembravano essere il naturale proseguo del match, ma al 90’ il cuore di tutta l’Argentina si fermò: Resenbrink approfittò di un calcio piazzato nella propria metà campo per buggerare l’intera retroguardia e inserirsi in area albiceleste; Fillol, preso anch’egli in controtempo, uscì alla disperata nel tentativo di fermarlo, ma l’olandese con un beffardo toccò eluse il suo tentativo. Un lungo brivido scosse le schiene di tutti i supporters biancazzurri, sembrava davvero il più triste e terrificante dei finali. Essi, però, poterono tornare a colorire i loro volti divenuti pallidi poiché il pallone carambolò sul montante e si spense all’esterno del rettangolo verde. La contesa poté quindi prolungarsi di altri trenta minuti e si risolse con il tripudio argentino grazie all’eroe del torneo: Mario  Kempes.  Infatti, sulla sirena del primo extra time con un’azione personale allo stesso tempo funambolica, caparbia e fortunata portò di nuovo in vantaggio i suoi. Nel finale del secondo supplementare ci pensò Bertoni a suggellare la vittoria con un destro chirurgico dopo un’altra magia del “diez”. 

Al triplice fischio del direttore di gara finalmente gli argentini poterono cominciare a intonare canti di giubilo per la vittoria tanto attesa; su tutti gongolava Videla, ben conscio che quel successo avrebbe distolto per un certo periodo il pensiero popolare dalla sua scellerata politica e annacquato i pensieri maligni su di lui. Al momento di consegnare le medaglie e la coppa, il generale strinse la mano a tutti i componenti della rosa, ma incredibilmente uno si rifiutò di salutarlo. Quel giocatore era proprio il man of the match Mario Kempes; egli sapeva di non poter rifiutare la chiamata di Menotti per salvare se stesso e i suoi cari da una possibile brutta fine, ma la sua posizione politica era netta e in contrasto con il regime. Le sue membra non si sarebbero mai insudiciate toccando la mano di uno dei peggiori aguzzini della storia argentina. Kempes si dimostrò così oltre che un grande calciatore (su di lui Maradona si espresse così: « Kempes mise il calcio argentino sulla mappa del calcio mondiale») un uomo carismatico e probo capace di sferrare un atto d’accusa tanto velato quando efficace contro un regime di cui era ben nota la violenza.

Facta non verba” dicevano i latini e mai detto sarebbe più azzeccato per unire e sintetizzare le decisioni di questi tre giocatori che non hanno avuto paura di manifestare le proprie idee attraverso atti d’accusa forti che ancora oggi costituiscono degli importanti insegnamenti e confermano come, se si vuole, ci sono diversi tipi di boicottaggio tra i quali scegliere: basta virare verso quello più adatto alla propria personalità.