I figli degli extracomunitari in Italia potranno calcare i campi di calcio del mondo dilettantistico

 

Se è vero che anche il calcio è specchio di un Paese, ne deve allora riflettere anche i cambiamenti. Così si può inquadrare la decisione della Federazione italiana giuoco calcio di abolire i commi 11 e 11 bis dell’articolo 40. Tradotto: i figli degli extracomunitari residenti in Italia possono calcare i campi di calcio del mondo dilettantistico italiano, nonostante debbano attendere il compimento dei 18 anni di età per diventare cittadini del Belpaese. Un problema che, per fare un esempio noto, ha coinvolto Mario Balotelli: l’attuale calciatore del Milan ha dovuto attendere di essere maggiorenne non solo per diventare italiano, ma anche per essere convocabile nelle selezioni giovanili della Nazionale.

 

Adesso le cose sono cambiate. Il limite è stato alzato a due giocatori extracomunitari per squadra, mentre i comunitari sono stati eguagliati agli italiani. Il risultato è stato ottenuto grazie al percorso impostato dall’associazione “Sport alla Rovescia”, che dal gennaio 2012 ha radunato diverse polisportive dilettantistiche italiane impegnate nell’antirazzismo e nell’integrazione grazie allo sport. «Ma sarebbe sbagliato chiamarla una “battaglia”, perché fin da subito abbiamo trovato appoggio anche da parte della stessa Federcalcio nel cambiare la norma», spiega a Linkiesta Nicola Saccon, avvocato padovano con il pallino dello sport e promotore dell’iniziativa, portata al successo grazie anche ai suoi studi in diritto sportivo.

Tutto comincia a inizio 2012. Ad Ancona numerose società dilettantistiche polisportive si riuniscono per capire come cambiare una norma discriminatoria. Anzi, la più discriminatoria d’Europa. La Figc, a differenza degli altri Paesi, limitava il tesseramento degli atleti extracomunitari di età fino ai 16 anni nei tornei di calcio della Lega nazionale dilettanti, sia per quegli atleti che fossero già stati tesserati in club stranieri, sia che venissero ingaggiati per la prima volta. E lo limitava richiedendo un permesso di soggiorno che fosse valido fino a fine stagione; inoltre, per i giocatori che venivano tesserati per la prima volta in assoluto, imponeva una residenza minima in Italia di 12 mesi prima di iniziare l’attività agonistica. Come spiega Saccon, qui stava il problema: «La Figc si arrogava il diritto di richiedere dei documenti che non erano di propria competenza, mentre invece dovrebbe occuparsi del solo tesseramento e non di questioni legate al permesso di soggiorno».

E che la Figc stessa sapeva di dover cambiare la norma, lo si sapeva già dal 2010. Nell’agosto di quell’anno, un giudice di Lodi diede ragione al calciatore di origine togolese Kolou, arrivato in Italia nel 2008 dopo aver chiesto asilo politico e divenuto un giocatore di una squadra locale nonostante le limitazioni federali imposte. In quell’occasione, venne accertato «il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dalla F.I.G.C. e consistente nell’aver previsto, tra i requisiti per il tesseramento dei calciatori all’art. 40, comma 11 N.O.I.F., il possesso di titolo di soggiorno valido almeno fino al termine della stagione sportiva corrente» (leggi qui tutta l’ordinanza del Tribunale di Lodi). Dopo la sentenza, la Figc emanò nel luglio 2012 un comunicato che eliminava il requisito temporale di validità del permesso di soggiorno.

Bene? Quasi, perché come puntualizza Saccon «la norma non veniva abolita, ma parzialmente derogata. Insomma, una soluzione che potremmo definire all’italiana». Una soluzione che non poteva lasciare soddisfatte le polisportive, che nel capoluogo marchigiano avevo nel frattempo dato vita alla campagna “Gioco anch’io” per sensibilizzare il mondo dello sport sulle problematiche del tesseramento. Dello sport, non solo del calcio: da Napoli a Padova, le attività rappresentate erano anche volley, rugby, cricket. «Abbiamo portato avanti la questione del calcio perché è uno sport molto seguito in Italia, cercando di replicare quelle esperienze già viste nel Cricket, sport nel quale l’Italia ha fatto benissimo con la divisione Under 17 composta da molti italiani immigrati e senza cittadinanza perché minori», spiega Saccon. «Poiché per ogni sport vale cosa decide la federazione di riferimento, abbiamo contattato i presidenti dei comitati regionali della Figc, ricevendo fin da subito consensi. Il che ha reso tutto più facile, nessuno ha posto vincoli o veti».

L’iniziativa non si ferma qui, rivela Saccon: «Quello che chiediamo è che si deve capire il cambiamento in atto nella nostra società. E l’apertura agli stranieri non comporta il rischio di un “razzismo al contrario”, cioè che si dica che ce ne sono troppi a discapito degli italiani. Chi è immigrato di seconda generazione è italiano ancora prima di diventarlo dal punto di vista burocratico e chi invece arriva da un altro Paese gioca partendo dalle comunità sportive di quartiere, quindi in entrambi i casi si può parlare di integrazione, non di razzismo».

 

Scritto da Alessandro Oliva, tratto da Linkiesta